Cogli la mela

Cogli la mela

Per essere i primi giorni di Aprile c’era un caldo torrenziale quanto una giornata di inizio estate.

Risalivo un sentiero battuto dal sole da circa venti minuti, sfiancata e sudata. Avevo sfilato la felpa per la settima volte per legarla in vita sapendo bene che non appena mi fossi addentrata in una zona d’ombra l’avrei di nuovo indossata. Il percorso per raggiungere rifugio di montagna si alternava tra mulattiere alberate con alta prevalenza di vecchi castagni e lande spianate di erba, dove l’ombra non regnava se non per mezzo di qualche sparuta e solitaria nuvola. In questo nuovo millennio il clima era decisamente mutato, un dato di fatto ormai ed evidente a chiunque, soprattutto ai “qualunquemente”, il che significava che era un problema serio. Se un qualunquemente all’improvviso si era accorto dei cambiamenti climatici significava che la faccenda ormai aveva superato il limite. Tuttavia, da quando mi ero trasferita a San Sebastiano Curore avevo imparato a guardare il succedersi delle stagioni con una nuova prospettiva tanto che a volte avevo l’impressione che esistesse una forza superiore e ne regolasse gli effetti. Sì, insomma che ci mettesse del suo a molestare le stagioni, soprattutto sgombrava il cielo da perturbazioni concedendo una strada preferenziale al sole, forse per dare all’uomo nuove energie e spingerlo ad evolversi.

Chi poteva restare fermo davanti ad un cielo terso e al sole caldo? Ti spingeva ad uscire, camminare, fare qualcosa, anche solo alzare il viso da terra e fissare l’orizzonte. Eri obbligato a mettere la testa fuori dalla tana ed era proprio per via di quel sole che avevo accettato il suo e fare una bella escursione prima che l’estate scoppiasse e rendesse quei pelligrinaggi troppo faticosi. Ma oggi era come essere in piena estate.

Dal cellulare guardai prima l’ora e successivamente consultai la mappa per valutare quanto mancasse alla vetta. Mi trovavo a metà tracciato con ancora due ore di cammino e un dislivello complessivo di 1300 metri. Era il caso di fare una sosta prima di affrontare l’atto finale. Adocchiai un solitario melo fiorito non molta distanza. La penombra dei suoi rami mi parve ideale per riposarmi senza raffreddarmi troppo. Ripresi la marcia nella macchia verde evitando di calpestare le prime margherite giganti che timidamente si aprivano al cielo. Mi trovavo più o meno a duecento metri dal melo quando un fruscio proveniente da est richiamò la mia attenzione arrestando il mio passo. Luca, il mio vicino di casa qualche giorno prima mi aveva raccontato di aver avvistato un paio di lupi aggirarsi per la brughiera. Quando avevo ascoltato il suo racconto lo avevo considerato come il suo consueto avvistamento/allarme prodotto da croniche ansie da ex cittadino trapiantato in campagna. Negli anni avevo imparato a prendere le sue preoccupazioni o per meglio definirle “visioni” al pari della favola di Esopo: “al lupo al lupo”. La differenza tra la favole e Luca era che quest’ultimo non scherzava, ma ci credeva realmente. Viveva nella paura incurabile di tutto, persino dei ghiri che di notte zampettavano sopra i nostri tetti. Nel territorio della Val Curone di lupi non se ne vedevano da almeno cinquant’anni e tanto meno si erano trovate tracce di loro eventuali attacchi. Solo Luca poteva averli avvistati, ovviamente nella sua fervida fantasia angosciante. Tuttavia quel fruscio, e in parte influenzata dalle visioni del mio vicino paranoico mi domandai se per caso non fosse la volta buona che la fiaba del lupo si avverasse in quel preciso istante. Titubante aguzzai ben bene la vista fissando il punto dal quale mi era sembrato provenisse il movimento. Concentrata cercai di sconnettere qualsiasi altra interferenza e lentamente, in una panoramica in modalità slow motion, osservai i dettagli della vegetazione pezzo per pezzo, finché i miei occhi si agganciarono a quelli profondi e scuri di un bellissimo capriolo. Se ne stava immobile e guardingo con il suo sguardo fisso nel mio ai margini del bosco. Sorrisi di cuore a quel contatto intimo. Non potevi esimerti dall’ammirare la loro incantevole bellezza. Possedevano, per natura, un singolare magnetismo che irradiava eleganza e calore, anche se erano dotati di un verso raccapricciante e inquietante tanto da far scappare anche un lupo. Era al pari di una bestia iraconda. L’esatto opposto di quello che sembravano. Innocenti ed innocui. Ricordavo bene la prima volta che ne avevo avvertito uno. Alloggiavo ancora nella roulotte accanto al rudere in ristrutturazione. Il suono rauco della loro ugola mi aveva svegliata di soprassalto in piena notte lasciandomi fino all’alba impaurita e accucciata in un angolo con un coltello alla mano maledicendo me stessa per la vita da eremita disperata che avevo scelto dopo la crisi del 2009.

Il capriolo dopo essersi accertato che non ero una minaccia si mosse di qualche passo rientrando nella vegetazione boschiva. Fu allora che intravvidi nelle retrovie un cucciolo altrettanto guardingo. Appena la madre zompettando si era addentrata nella macchia il piccolo l’aveva seguita trotterellando veloce.

“Ciao Ciao”, dissi per poi riprendere il mio cammino in direzione del melo. Niente al lupo al lupo, pensai sorridendo.

A mano a mano che mi avvicinavo al melo mi resi conto di quanto fosse imponente il fusto. Le dimensioni del tronco superavano il metro e mezzo abbondante. Mi chiesi da quanto tempo regnasse in quella landa solitaria. Raramente un albero di mele superava il secolo di vita, ma il dettaglio del suo apparato radicale lo rendeva decisamente più anziano. La chioma ampia e i suoi fiori bianchi e rosa sembravano totalmente immuni alle avversità del tempo trascorso. Giunta ai suoi piedi, ne toccai la corteccia e cercai alle sue radici se ci fosse la presenza di qualche fungo parassita, mi rallegrai nel constatare che non ve ne erano. Era illeso al degrado del regno umano e soprattutto da quello degli artropodi.

“Sei proprio un bel melo”, dissi. Steso il telo sotto il fogliame fitto mi ci sdraiai a osservare i suoi lunghi rami. Tra le mille domande che la mia mente sfornava a ritmo di una centrifuga consentii solo ad una di accedere alla corsia preferenziale dei pensieri consci. “Come è arrivato il suo seme fin qui?”. Nel circondario non avevo visto altri fruttiferi. Con tutta probabilità, era stata l’opera di un’altra anima in pena come la mia che dopo essersi rifocillato con una mela ne aveva gettato a terra il torsolo, o forse era stato portato dal vento, o forse era caduto dal becco di un uccellino in volo. Come nella vita umana, anche lui in qualche modo era stato abbandonato inconsapevolmente, o trasportato dalla corrente degli eventi, oppure scampato alla predazione per un caso fortuito. Ma che importanza aveva porsi una tale domanda. Non aveva alcun valore conoscere la storia del seme e da dove provenisse. Semmai era la sua presenza silente a interessarmi ora. Scattai una foto al melo registrandola nel mio archivio insieme alle coordinate della latitudine dove mi trovavo. Mi ripromisi di tornarci tra un paio di mesi per assaggiare i suoi frutti semmai ne producesse ancora.

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Amore in salsa porno

Amore in salsa porno

La vita è stare in un letto con te, tutto il resto è soltanto attesa.

Misi in pausa il video lasciando un fighissimo Michael Fassbender appollaiato sul divano avvolto da un asciugamano e ripensando a quella frase appena pronunciata mi resi conto di come in pochissime, ma essenziali parole fosse racchiuso il senso di tutta una vita. L’afflizione a cui noi donne e forse anche gli uomini andavamo dietro da che gli ormoni si erano attivati in noi. Trovare l’amore, girare in tondo tutto il giorno tra lavori e menate varie e infine a letto con lui e bum fine del viaggio. Tutto molto semplice e sostanzialmente vero.

Sospirando voltai lo sguardo alla finestra. Pioveva da due giorni e le previsioni meteo non davano notizie rincuoranti nemmeno per la settimana a venire. Perturbazione proveniente da est. A quell’ora sarei dovuta essere al rifugio sul Resegone, seduta accanto ad un bel camino ardente a mangiare spezzatino con patate accompagnato da fiumi di buon vino e invece mi trovavo bloccata nella mia Milano grigia e umida a poltrire sul divano. Tornai al video e riguardando quell’uomo avvolto da un asciugamano, pensai che sì, anche io sarei rimasta volentieri a letto con lui, perché tutto il resto era solo una attesa noiosa di qualcuno che non si era mai più manifestato da che Marco se ne era andato a fanculo con la mia migliore amica.

Un addio avvenuto più o meno quattro anni prima e precisamente il giorno della mia laurea. Avevo raccolto tra le braccia un mazzo di fiori e insieme la loro confessione. Tutta la felicità della mia conquista universitaria si era annullata dietro a quella sorta di tradimento. Ma non era la prima volta che tutta la mia felicità venisse irrimediabilmente distrutta appena raggiunta. Era la legge divina o karmica se la si vuole chiamare così. Il saperlo però aveva i suoi vantaggi. Avevo imparato a non aspettarmi mai nulla, non eccedevo mai nel godere del vivere, e in generale non credevo negli affetti che si sgretolavano nelle mani come sabbia di mare. Qualcuno mi definiva pessimista, ma era un etichetta affibbiatami da falsi ottimisti. Ero solo una disincantata, una realista, al contrario di coloro che vivevano nell’illusione. Il metodo per riconoscere il pessimista si basa su una legge universale. Il piaggni e lagna. I pessimisti si lagnano, i disncantati ridono sarcasticamente alla programmazione con cui siamo stati cresciuti e condizionati.

In quel impigrirmi malinconico intercettai gli ansimi di una donna provenire dalla camera da letto dell’appartamento accanto. Scossi la testa sconsolata e recuperai le cuffie dal tavolino per non sentire altro. Come ogni domenica da quattro mesi a questa parte il mio vicino era all’opera con la donna di turno. Era ancora un mistero come riuscisse ad attenersi a certe prestazioni, come del resto lo era anche la sua persona che non avevo ancora avuto modo di incontrare. Questo fatto non mi aveva permesso di farmi un’idea più precisa di chi fosse e quale lavoro svolgesse. Il condominio dove abitavo sembrava abitato da fantasmi e raramente intercettavo qualche inquilino. Ma un sospetto però iniziava a balenare in me. Se fosse stata una donna anche senza vederla sarebbe stato lecito pensare si trattasse di una escort come le chiamavano garbatamente ai giorni nostri le troie, un modo per legittimare un mercantilismo vizioso. Oppure forse lo era lui,  ma non bissava mai, o meglio, non si era ancora ripetuto con nessuna delle donne e pertanto era ragionevole pensare che non fossero clienti fisse e per come ci dava dentro non credo mancasse in performance. Era ancora un mistero. Il “trivella” lo chiamava Carolina l’inquilina del piano di sopra, l’unica abitante intercettata di quel piccolo condominio al ticinese. Anche lei tormentata dai cori erotici del fine settimana e dei quali spesso ne discutevamo durante le serate di qualche talent show. Una sera avevamo anche stilato una lista suddividendola in categorie. C’erano le strillone, le teatrali, le cagne, le spiritate, le zombie, le valchirie, le stridule, le paurose, e le santificate, le migliori, almeno per me. Dio per loro era un cazzo. Io sinceramente non sapevo a quale categoria appartenevo, di solito dipendeva dall’uomo con cui stavo e naturalmente da quando lui, be’, fosse attrezzato e come dire, partecipe. Ma per certi versi forse anche io rientravo nella categoria santificate e anche un po’ spiritate, ma ormai era passata tanta acqua sotto i miei ponti da non ricordare più nemmeno la sensazione di essere trastullata da un uomo. Da tre anni non facevo più sesso e sinceramente non mi mancava a parte quei due o tre giorni dell’ovulazione durante i quali dentro di me si accendeva una voglia sfrenata, ma avevo imparato a dominare. Era solo la suggestione di un corpo fertile che necessitava di essere ingravidato e per ovviare al problema avevo affidato il compito di placare gli umori al mio fidato massaggiatore sonico. Efficace, pratico, preciso e con ben otto modalità.  Nessun coinvolgimento sentimentale, con lui l’unica precauzione era quella di non perdere il cavetto di ricarica usb dedicato.

Questa mia astinenza al genere maschile non era stata proprio una scelta voluta, conseguenza di qualche malvagia e triste esperienza negativa, era semplicemente una mia totale perdita di entusiasmo dovuta al lavoro che facevo. Lavoravo nella produzione di un canale satellitare come assistente alla regia di un noto programma dedicato al mondo trasfigurato del sesso. Negli ultimi cinque anni non c’era stato party, locale, set porno che non avessi visitato e analizzato da ogni prospettiva. Ne avevo viste e sentite di tutti i colori ed ormai, per deformazione professionale, la mia visione romantica del sesso era un lontano ricordo. Ovunque guardassi vedevo solo tutto in funzione del sesso. Locali speciali per incontri speciali, traffico di gnocca in hotel di lusso, Montenapoleone preso d’assalto da valchirie dell’est, sfigati senza dna di uomo vero dietro a culetti allegri e falsi sorrisi, siti internet dedicati, letteratura erotica, vademecum su come farlo, perché e come e quando e quanto, trasmissioni televisive atte solo a legittimare espedienti che alla fine erano solo un modo per colmare quel vuoto atavico che ci portavamo dentro da che eravamo venuti al mondo. Sentirsi veramente. Ormai il sesso era solo accoppiamento anatomico, un camuffamento di un atto che era solo teatralità questo grazie al delirio sociale legato ad esso. Oscar, il mio capo, diceva che sesso e amore erano due faccende separate e che dovevo imparare a distinguerle. Certo, certo. Era sposato da quindici anni e da quello che mi diceva faceva ancora l’amore con sua moglie. Quando però guardavo la sua bella pancia gonfia e le occhiaie sotto gli occhi non riuscivo proprio a pensarlo mentre faceva l’amore. Era più facile pensare che anche lui scopava ridicolmente senza fare davvero l’amore. Era più probabile che si fottevano giusto per farlo, per quel richiamo fisiologico. Come pisciare al mattino appena alzati.

Con il lavoro che svolgevo, le occasioni tuttavia non mancavano, ma gli uomini che incontravo potevo definirli tutta carne e basta. Per carità, bella carne e anche cari ragazzi, ma l’apparenza li limitava nel resto. L’insicurezza in loro era così evidente da non farmi nemmeno svestire. Bambini, piccole creature dentro corpi bellissimi e scolpiti.

Prima di infilarmi le cuffie e riavviare il video per tornare a consolarmi con il film mi concentrai qualche secondo per captare con quale categoria si stesse accompagnando il vicino. Intenta a inquadrare il soggetto delle attenzioni del vicino, mi arrivò un messaggio al cellulare da Carolina.

Cagna

Scoppiai a ridere e le risposi immediatamente.

Stavo giusto ascoltando per individuare la specie e mi hai anticipato

🙂 Cosa fai?

Guardo un film?

Che film?

The conseulor

Scendo

Ok

Due minuti dopo era davanti alla mia porta con un sacchetto di patatine e un cesto di birre.

“Benvenuta”, dissi prendendo le birre.

“Dov’è quel gran figo di Fassbender”.

“In soggiorno, ci sta aspettando”.

“Wow non vedo l’ora, ce la farà il nostro stallone?”.

Riversate le patatine in una ciotola e stappate le birre sprofondammo tutte e due nel divano. Carolina aveva due anni in più di me, ovvero, trenta, fisioterapista di professione e nel tempo libero dj per eventi. Era una tipa tosta, una di quelle donne che non si lascia intimorire da nessuno. Capace di stenderti con un colpo di kung fu alla velocità della luce. Questo però era ben celato dietro le sembianze di una piccola ragazza dallo stile molto inglese a parte i capelli rosa. La reciproca conoscenza era avvenuta in ascensore la prima volta e successivamente il mattino durante la colazione al bar sotto casa. Due parole, due battute e tra noi si era instaurato un buon rapporto di vicinato. Eravamo diventate un appuntamento quasi quotidiano per non sentirci sole.

“Certo che Cameron Diaz in questo film è davvero una strafiga, credo sia una delle sue migliori interpretazioni”, commentò Carolina sgranocchiando una manciata di patatine.

“Lo penso anche io, è una di quelle attrici che nel tempo migliora, un po’ come Mattew McConaughey”.

“Sì, vero, anche lui, sempre meglio. Quello più invecchia più diventa figo, ha fatto un patto con il diavolo”.

Ed ecco che nel momento topico del film gli ansimi della cagna tornarono a farsi sentire.

“Come diavolo fa’?”, domandò Carolina, “Secondo me prende qualcosa sostanza. E’ impossibile che abbia questo controllo. L’altro giorno parlavo con il mio ortopedico, mi raccontava di uomini affetti da anorgasmia”.

“Cioè?”, chiesi curiosa.

“Sì, come le donne, non riescono a raggiungere l’orgasmo, pare dipenda dall’ansia”.

“Non lo so”, mormorai. “Non avendolo mai visto e nemmeno provato non posso giudicare. Io più che altro mi chiedo come faccia lei, cioè io dopo venti minuti di trivellamento continuo mi si asciuga, brucia, va a fuoco. Qui dietro stanno andando avanti da un’ora. L’avrà farcita di gel, impossibile tenere quei ritmi, nemmeno nei film porno reggono tanto. o almeno io non so te e comunque non voglio saperlo…”.

Carolina si alzò dal divano e andò a colpire con un pugno il muro.

“Inutile”, borbottai stoppando il video. “Sai che inizio ad avere il sospetto che lui sia un accompagnatore, anche se è impossibile, le tizie sono sempre diverse. Di solito se uno lavora bene ha sempre un ritorno di clientela. Ne ho parlato anche con il mio capo e non è riuscito a darmi una spiegazioni logica”.

Dopo il colpo assestato da Carolina, la cagna sembrò reprimere le proprie grida, ma solo per qualche secondo, poi tornò il suo ululato.

“Non ci avevo mai pensato”, disse lei. “Comunque non credo proprio sia un accompagnatore. L’ho incrociato ieri, almeno credo sia lui. Era in cantina”.

“Racconta”, dissi entusiasta.

“Non lo so, cioè era dentro la sua cantina e io stavo tirando fuori la bicicletta l’ho solo visto di spalle, ma sinceramente non potrei dire che fa quel mestiere”.

“Guarda, l’apparenza inganna. Dovresti vedere gli uomini improbabili sui set del film porno. Alcuni sono veramente sciatti, ma appena tirano giù le mutande mostrano un lato di sé che vale mille, forse la sua dote è quella e soprattutto il fatto che è da prestazione da record”.

Carolina scosse la testa. “Lascia stare. Non farmi pensare ai piselli. Stamattina ho trattato il signor Precotti e come al solito mentre gli lavoravo il ginocchio gli si è alzato il pisello. Ormai ha superato i settanta ma sotto ha un arnese lungo. Da impressione”.

In quel momento pensai al set porno per gli over sessanta ricordandomi di Benjo, così si faceva chiamare Osvaldo. Aveva superato i sessanta da diversi anni e ancora riusciva a farselo alzare senza pillola. Un vero veterano del porno. Aveva iniziato intorno ai vent’anni. Si definiva un “cazzuto”, mai termine migliore poteva rappresentarlo.

All’improvviso i gemiti si azzittirono di colpo e qualche secondo dopo udimmo la porta di casa del vicino chiudersi. Senza dirci una parola tutte e due ci fiondammo al balcone della mia stanza, curiose di dare un volto al vicino o alla tizia che si era appena fatta trastullare. Pioveva, ma chi se ne importava. Strizzate una vicina all’altra nel mezzo metro di terrazzino aspettammo di vedere chi usciva dal portone. E niente. Il taxi in sosta davanti al passo carraio era coperto in parte dal balcone del primo piano. E infatti non vedemmo niente se non l’auto fare retromarcia e sparire lungo il naviglio.

“Non capisco”, disse Carolina confusa rientrando in casa.

“Cosa?”, chiesi.

“Niente, è strano. Insomma, un secondo prima gemeva e un secondo dopo era sul ballatoio del condominio. Era già vestita? Lui anche? Cioè erano vestiti. E poi è uscito lui o lei? Non mi tornano i tempi. Io prima di uscire sarei andata in bagno…”.

Effettivamente il dilemma di Carolina aveva senso, ma appena rividi Fassbinder alla televisione optai per altri pensieri lasciando cadere il discorso detective in merito al vicino trombone.

“Dài non ci pensare, finiamo il film poi se ti va stasera possiamo andare a mangiare una pizza e a berci qualcosa al solito posto”.

“Volentieri”, disse Carolina zompando sul divano.

… to be continued…

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Il Silenzio della Tessa

Il Silenzio della Tessa

Per chi se lo chiede, per chi vuole sapere, per chi cerca confronto, conforto, per chi invece non so, spiegherò qui perché per anni non ho scritto più nulla.

Quindi… La ragione? Ingarbugliata.

E’ la sola parola che mi viene in mente per dare un senso al pasticcio di più elementi, miei, esterni, esistenziali, materiali che nell’insieme hanno creato una gran palla al piede e nel mio caso alle mani.

Ma per meglio descrivere cosa è accaduto senza entrare nel merito di alcune vicende personali mi limiterò a dare una spiegazione partendo dal cosa significhi “scrivere”. Non so se vale per tutti, ma è quanto personalmente sperimentato.

Chi scrive, chi esprime arte, chi inventa “cose”, forme di espressione, insomma chi si espone in qualche modo al mondo, percorre quotidianamente il baratro della propria anima, o esistenza come la si vuole chiamare.

Lo scrittore non è per niente pietoso con se stesso, è sempre pieno di dubbi sulle proprie capacità tanto da farsi del male da solo. Più che attraverso la scrittura, che spesso è sciolta e veloce, è durante la rilettura che nello scrittore si crea uno strano perfezionismo e il motivo è che lo scrittore è quasi sempre il personaggio che descrive, inutile girarci intorno c’è proprio lui dietro, ed è ben visibile. Ovviamente fintanto che si è inconsapevoli il problema non si pone, diverso è invece quando l’autore raggiunge un livello di maturità personale e finalmente vede quella linea sottile che lo separa dai personaggi e allora il vedersi lo porta sempre e continuamente dentro di sé e, quasi sempre, non gli piace cosa vede.

Nel mio caso vedevo solo e sempre una profonda malinconia, una tristezza congenita, un mal di vivere e un bisogno di amore estremo che desideravo, ma di cui avevo paura, e allo stesso tempo rinnegavo. La mia esistenza appunto.

Ecco, guardarsi non è mai facile. Addentrarsi dentro i propri deliri non ha nulla di piacevole, c’è da diventare pazzi per l’odio che si genera verso se stessi, soprattutto quando poi, oltre a rileggerti con gran fatica, facendo anche finta di niente, per non dare significati a ciò che hai scritto… poi il mondo spietato lì fuori te lo sbatte in faccia quel tuo essere schifidamente fragile e imperfetto. E allora getti la spugna, lasci perdere e cancelli tutto. Insomma io non avevo più voglia di vedermi. Perchè leggevo di una me letteralmente a pezzi, con la mia mente ingannevole che attraverso la scrittura cercava soluzioni e lieti fine improbabili.

Questo è stato il motivo per cui non ho scritto più nulla oltre le tre pagine nonostante idee e storie pullulassero in testa.

Poi… è accaduto qualcosa di irrilevante, ma che ha rimesso in moto un po’ tutto. E’ arrivato l’avviso di scadenza del dominio di questo sito, comprato nel 2013 e mai sviluppato, anzi iniziato e poi abbandonato. Incerta se spendere di nuovo dei soldi per qualcosa di trascurato dall’origine mentre digitavo il codice per l’autorizzazione bancaria anche un po’ incazzata per dover mantenere attivo uno status che ormai aveva fatto il suo tempo, feci una promessa a me stessa.

“Spendi i soldi ma fai il sito! Anche una sola pagina, ci metti dentro tutto quello che hai realizzato. Sara Tessa è esistita! Che sia un archivio. Un punto certo della tua vita!”.

Parlo così con me stessa, ma credo un po’ tutti, quando voglio darmi una mossa. E’ il mio guardiano interno. E così,  sotto la pressione di quel guardiano… avevo autorizzato il pagamento. Ovviamente appena il guardiano era andato a dormire avevo spento il computer e dimenticato la promessa.

Ma intanto quel diktat si era spinto dentro di me, e tra il fare e il non fare ho iniziato a realizzare il sito, e piano piano, struttura dopo struttura, codice dopo codice, e cazzeggio vario, mentre il sito prendeva forma e iniziavo a inserire i contenuti, mi è venuto in mente che avrei potuto finalmente fare outing rispetto a due romanzi pre-L’uragano di un batter d’ali a cui nessuno era mai stato interessato, ma che per me erano stati essenziali per arrivare proprio all’uragano ed è così che qualcosa è davvero cambiato…

Infatti rimettendo le mani al mio primo romanzo fantasy da far leggere su questo sito mi sono trovata a rileggerlo e sorridere della protagonista, di me, della storia che avevo partorito e ho provato un profonda tenerezza per quell’anima così schifidamente fragile e imperfetta. Inoltre, dover inserire nel sito alcuni stralci degli altri romanzi scritti come Sara Tessa, mi ha permesso di andare ancora più a fondo. Confesso di aver riletto l’uragano di un batter d’ali e di aver veramente scosso la testa fra me e me, ma senza giudizio negativo, bensì intenerita. Mi sono commossa con la fine di Se fossi qui con me questa sera e Un’ora un giorno un anno senza di te e l’ho vista fino in fondo quella piccola anima schifidamente fragile, e non mi ha fatto più tanta paura.

Mi appartiene e sono lieta che quella piccola anima sia riuscita negli scritti a venirsene fuori con certe frasi per cui ho davvero ritrovato il sorriso perduto da tempo.

Bon. Intanto ho scritto fino a qui ed è già un grande passo, come questo sito che racchiude quanto ho realizzato e di cui sono riconoscente a me stessa e quindi anche a quell’anima schifidamente fragile.

Se scriverò altro di sicuro uno spazio qui lo troverà, senza impegno. Mi piace pensare questo luogo nella rete come la mia stanza segreta nel web a cui è permesso accedervi come spettatori silenziosi, e se in qualche modo, come me, siete anime schifidamente fragili sappiate che siete tenere e tremendamente non sole, ma soprattutto benvenute.

 

 

 

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