La mente in fuga

La mente in fuga

On the longest day
The vanishing mind
Knows not when the day ends
Who could care for you
Who could understand
In the room sealed shut
You’re not what you were

Sulle note della malinconica The vanishing mind osservai una coccinella adagiarsi sul sottile stelo di una primula. In un primo momento fui tentata di allungare la mano ed accoglierla sulle dita, ma appena mi resi conto del sentimento di speranza legato al quel gesto fermai la mia volontà.
Nel microcosmo di altre specie insettivore, la coccinella con il suo aspetto e la singolare forma aveva la capacità di richiamare in noi esseri umani, appartenenti invece al macrocosmo delle cazzate mentali, un senso di simpatia e dolcezza. Questi sentimenti erano per lo più legati alle legende a lei dedicate e tramandate dalla fantasia popolare che spesso le attribuivano il potere della fortuna e dell’amore dietro l’angolo. Tutte storie di falsa speranza. Favole insegnate da tempi immemori atte a plagiare le menti. Pensieri magici per dare un senso superiore agli eventi e alle cose dove in fondo non esistevano. Nella mia vita, di coccinelle ne avevo liberate a volontà e sulle mie mani se ne erano posate altrettante, ma le profezie di amori e buona fortuna non si erano avverate.
In pochi però conoscevano la vera natura di quel grazioso insetto. Sotto quella livrea tondeggiante, e a pois neri si celava un’anima predatrice non da poco. Quei portafortuna volanti, nella loro vera natura, erano tra i più attivi predatori del mondo insettivoro, tanto voraci, al punto da essere cannibali tra loro. E a pensarci bene, non erano molto differenti dagli altri esseri viventi presenti su questo pianeta. Anche loro con una bella maschera di apparenza. A misura di innocenza e bontà, dietro la quale però nascondevano un famelico spirito di sopravvivenza.

So much sweeter now
That there’s nothing left to
Remember you
It’s what brought you here
It’s what keeps you here

Già, pensai ascoltando le parole vibrate dalla voce calda e confortante dei Calexico. Cosa mi aveva portato qui? E cosa mi teneva ancora qui, sdraiata sulla terra di verdi e rigogliose colline a mirare il cielo azzurro?

Your smile brings me back
To the longest day
The vanishing mind

Ecco la risposta. Un sorriso, ormai sfumato, che non era più per me… e a dire il vero, a distanza di anni, era piuttosto evidente  che mai lo era stato per davvero.
Mi tolsi gli auricolari per ascoltare suoni più reali riportando i pensieri in eden meno immaginari ed esistenziali.
“Buon lavoro!”, sussurrai alla coccinella ormai giunta in cima al crinale della primula. Una volta sulle mie gambe, mi stirai un poco e osservai il paradiso in terra sul quale mi trovavo. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca di una nuova primavera ormai alle porte e in un attimo ero di nuovo nel mio emisfero sinistro, quello razionale, lontana dai ricordi e pronta a tornare al mio rifugio nel bosco. Raccolsi il fucile da terra e di nuovo spensierata mi voltai per raggiungere il sentiero, ma nemmeno un passo e…
Cazzo no, pensai appena il mio sguardo individuò il vecchio Patrick insieme a quello che io avevo soprannominato Sventura. Un meticcio pulcioso, frutto di variopinte razze canine che nei suoi otto anni di vita ne aveva vissute di tutti i colori e nonostante le innumerevoli sfighe e l’esperienza acquisita riusciva sempre a cacciarsi nei guai. Sarei ripiombata a terra nascondendomi tra i fili alti dell’erba pur di far perdere le mie tracce, ma ormai era tardi. Patrick mi aveva individuata. Sventolava il suo fucile per richiamare la mia attenzione. Un gesto intimidatorio al di fuori dell’Alaska, ma sorprendentemente amichevole in questo Stato di animali selvaggi alla stato libero.
“Amber”, urlò Patrick.
Alzai il mio fucile in segno di saluto e attesi che mi raggiungesse già rassegnata al dialogo prosciugante da “qualunquemente” mi avrebbe elargito a breve. Non era antipatico il vecchio Patrick, ma come tutti gli esseri viventi, soprattutto di una certa età, e residenti nella sperduta radura del Nord più Nord dell’America, solo come un cane e con un cane al seguito, tendeva a ripetersi nei concetti e pensieri. Una condizione comune al genere umano, ma che in lui degenerava nell’agonia della reminiscenza. Appena trovava qualcuno (in)disposto ad ascoltarlo, e nello specifico la sottoscritta, altro essere vivente presente nell’arco di quindici miglia, apriva il file delle memorie passate e via… Ti sbrodolava una litania di ricordi a partire dai tempi in cui era venuto al mondo sul tavolo della cucina, lo stesso su cui ancora oggi mangiava o leggeva il giornale locale. Personalmente sopportavo a malapena chi ogni due per tre mi riproponeva i suoi ricordi riportandoli al presente. C’era qualcosa di irrisolto nel raccontare il proprio passato e spesso avevo l’impressione che la bobina della memoria avesse come obiettivo dare conferma alla propria esistenza. Un modo per riconciliarsi con chi erano e rialzare l’asticella della propria autostima. Quel tipo di rievocazioni personali avevano la capacità di annientarmi. Non amavo pensare al mio passato, o arrovellarmici dentro pertanto ascoltare estranei disquisire sul proprio mi costringeva a resistere per non mandarli al diavolo. Era una perdita di tempo, almeno per me, ripensare al passato. Tanto le tracce erano dentro di noi. Indelebili. Te le portavi addosso anche senza dover per forza occupare la mente nel ricordare scene di vita vissuta come fossero quelle di un film visto al cinema e che appartenevano poi solo a una sequenza di fotogrammi sui quali mettevi didascalie a tuo piacimento ingannandoti e ingannando gli altri del fatto che in fondo eri una brava persona, intelligente, per bene, o vittima delle circostanze e cos’altro pensavi di essere e che il mondo era il contrario di te. Per come la vedevo, per me l’essere umano era solo un miscuglio di cellule replicate di generazione in generazione e nel tempo avevano prodotto un dna portatore di altri individui irrisolti, ovviamente nostri predecessori, che ogni tanto si riattivavano nei momenti di debolezza per romperti i coglioni. Un inconscio/anima/spirito o come lo si voleva definire composto di mille voci che si risvegliavano alternandosi o tutte insieme. Paure e deliri altrui capaci di pilotarti nei momenti di debolezza. Per questo, un giorno mi ero detta che data l’impossibilità di modificare quel dna di personaggi sconosciuti e allo stesso tempo conosciuti forse era meglio vivere a livello base. Direi l’essenziale. Mangiare, respirare, dormire, camminare e soprattutto pensare al minimo. Una sorta di dieta umana per concedere tempo a quelle cellule irrisolte di trovare la pace o almeno imparare a starsene zitte e raccolte, tutte unite dal silenzio della natura in cui avevo deciso di vivere. Trasferirmi in Alaska mi era sembrata a suo tempo la scelta migliore che potessi fare. Non c’era stato nulla a tenermi legata alla mia città natia se non la speranza che qualcosa prima o poi sarebbe cambiato. Ed era stata proprio quella speranza perduta a spingermi a mollare tutto. Per mio fratello era stata una fuga, per mio padre un atto di codardia, per mia sorella una follia, per zia Wendy il modo migliore per ritrovarmi e per mia madre non saprei. Per lei ero all’estero a lavorare in una multinazionale farmaceutica e questo rassicurava la sua indole ansiotica/schizzofrenica. Per quanto fossi consapevole di come la mia scelta fosse una palese forma di evitamento esistenziale me ne ero dimenticata non appena avevo rivisto il piccolo chalet di zia Wendy vicino a Talkeetna offertomi per il mio internato da eremita. Un perfetto rifugio da riadattare in grado di riadattarmi.

Il muso peloso di Sventura arrivò ai miei piedi.
Eccoti cane scemo!
Gli carezzai l’orecchia mezza monca e attesi l’arrivo del suo padrone.
“Amber!…”, disse Patrick affannato, dalla tasca dei pantaloni estrasse il fazzoletto logoro di sé per asciugarsi la fronte lasciando me in attesa di capire cosa c’era di tanto urgente da venirmi a cercare nella radura. Abbassai gli occhi meditabonda sullo sguardo di Sventura che scodinzolando allegro stava devastando con le sue zampe il giaciglio dove poco prima miravo il cielo, compreso il fuscello della coccinella, ora sparita. Nella migliore delle ipotesi era riuscita a volar via oppure nella peggiore era morta sotto le sue zampe senza alcuna pietà, ma soprattutto senza un vero motivo se non il fatto che un cane scemo senza cervello, ma leale e fedele, l’aveva calpestata senza nemmeno rendersi conto di cosa avesse fatto. Ma del resto, che colpa ne aveva il povero Sventura, era più che probabile avessi fatto altrettanto io sdraiandomi a terra poco prima, magari un genocidio di formiche e specie sconosciute. Ecco… La mia dissonanza cognitiva era ripartita a mille. Per ogni evento riuscivo a vedere le mille sfaccettature. Il bene il male, l’inferno il paradiso, gli opposti in ogni cosa. Feci uno sforzo e mi concentrai su Patrick e su cosa avesse di urgente da dirmi.
“Ti sono venuto a cercare…”, e dopo un bel respiro aggiunse: “C’è un tizio che cerca in affitto una casa. E’ in viaggio, e sta cercando una sistemazione. Frank gli ha detto che tu hai un paio di chalet da affittare”.
“Uhm?”, mormorai confusa.
Di solito non accettavo ospiti senza prenotazione, ma conoscevo Frank e potevo fidarmi di lui. Sicuramente prima di avergli dato le coordinate dello chalet doveva avergli fatto il terzo grado.
“Si chiama Oliver e qualche cosa, ma non ricordo, l’ho lasciato alla casa al lago, quella più grande. Gli ho detto che venivo a cercarti”. L’orizzonte a sud si proiettò nelle lenti degli occhiali di Patrick e catturata dalla sfumatura rosea riflessa mi voltai a mirare il tramonto nel suo splendore originale. Altra giornata di sole per l’indomani pensai e mi godetti quel pensiero cercando di allontanare il pensiero che uno di città volesse alloggiare nello chalet sul lago. La gente di città era sempre pretenziosa e poco adattabile. Proprio per evitare grane nell’annuncio specificavo sempre che non c’era connessione internet, televisione, il bagno era esterno e soprattutto che la zona era popolata da orsi e lupi.
“Grazie Patrick, vado a vedere cosa vuole. Torni con me?”, chiesi.
“No, no, approfitto per andare a pescare, l’orario del tramonto è quello giusto”, rispose Patrick, “Ci vediamo dopo, ti porto qualche pesce”.
Per fortuna, pensai. Lo salutai e non proprio felice mi avviai verso il sentiero del rientro con un presagio a bussarmi alle tempie…
Trovai Oliver vattelapesca seduto al tavolo sotto al portico intento a guardare una piantina della zona.
“Buongiorno”, dissi salendo i gradini.
Rapido si alzò i piedi e con un gran sorriso mi strinse la mano.
“Buongiorno, sono Oliver xxxxxxx, mi ha mandato qui Frank del xxxxxxx”.
“Sì, lo so, benvenuto”.
“Sono in viaggio, sono arrivato oggi da xxxxxx e pensavo di restare nei dintorni un mese circa, sto facendo delle riprese fotografiche”.
“E’ la prima volta che viene in Alaska?”.
“Sì”, rispose.
“Be’ sono sicura che troverà molto da fotografare qui, ma le consiglio di trovare una guida o almeno un fucile, la zona è battuta da orsi e altri animali, meglio non addentrarsi la mattina presto, è l’orario in cui cacciano”.
“Ah, lei conosce qualcuno che può fare al caso mio”.
Scossi la testa. “Non saprei, forse…”, ci pensai un po’ su. “posso sentire Frank, di sicuro lui ha la persona giusta”.
Alzai il vaso e presi la chiave della porta.
“Le mostro la casa. Non aspettavo ospiti e quindi non è stata aperta, se decide di prenderla, verrò a fare le pulizie subito”.
“Non si preoccupi, se il dentro è bello come il fuori starò benissimo”.
“Le faccio portare la legna da Patrick così può accendere il camino”.

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Se smetti di sognare allora stai dormendo

Se smetti di sognare allora stai dormendo

Se smetti di sognare allora stai dormendo!

Questa frase non è una mia creazione, l’ho letteralmente rubata alla serie televisa “Aiutami Hope!” di cui ero una grande fan. A fine post trovate un piccolo estratto della puntata.

Ricordo ancora l’effetto che ebbe su di me quando, sdraiata sul divano, ascoltai quel piccolo seme di saggezza dalla voce del protagonista. Fu una sorta di illuminazione pura.

3:12 minuti di sequenza capaci di farmi prendere la decisione di crederci. Perché sì. Perché era vero… se smettevo di sognare allora potevo definirmi morta. Quindi, non facevo del male a nessuno a sognare. Qualsiasi cosa. Senza impegno, senza accanimento. Perché era giusto così.

Divenne il mio motto. Ogni qualvolta incappavo in un’ostacolo, che fossi io o altro, mi ripetevo quella piccola ma potente frase. Se smetti di sognare allora stai dormendo.

Spero sia fonte di ispirazione questo piccolo concetto e che l’estratto dalla puntata di “Aiutami Hope!” riesca a dare la stessa illuminazione o spinta a non rassegnarsi.

Ovviamente questo è solo un motto, non salva dalla sfiga o rotture quotidiane, ma ha un che di leggero nel suo significato, e per questo è simpaticamente utile.

Un pensiero magico

Un pensiero magico

L’amore è incondizionato: In amore non ci sono condizioni: ama senza una ragione, senza una spiegazione. Sei libero di essere ciò che sei e permetti agli altri di essere ciò che sono”.

Socchiusi gli occhi e sospirando con rassegnazione riposizionai la carta della sibilla in cima al mazzo.

“Cosa è uscito?”, chiese mia sorella sdraiata sul divano intenta a digitare in modo compulsivo al cellulare.

 “Una teoria”, risposi saracastica. Dannazione. Ci cadevo sempre nel tranello dell’oracolo. Me lo ripromettevo sempre di evitare la trappola della chiaroveggenza, ma purtroppo la curiosità e la subdola malattia del pensiero magico alla fine risultavano essere più forti della mia volontà e attirata come una magnete al tavolino del soggiorno di mia sorella alla fine ne prendevo sempre una trattenendo il respiro. “Significativo!!!”, esclamò sarcastica senza togliere gli occhi dal cellulare. “Significativo!?”, bisbigliai tra me. Che diavolo voleva dire quel messaggio se lo proiettavo sulla mia vita? Tradotto nella vita reale e soprattutto nella relazione con un certo Davide, conosciuto un paio di mesi prima, significava, in sintesi, continuare ad amare uno stronzo comunque, senza una ragione… essere libera di mostrarmi ebete e permettere a lui di essere sempre e solo uno stronzo. “Guarda che sei tu a dare i significati, in fondo se adesso alzi un’altra carta verrà fuori tutt’altra sibilla e di conseguenza gli darai sempre un’interpretazione in base a quello che ti porti sulle spalle. Quindi se vuoi stare con il bicchiere alzato e sentirne il suo peso sono fatti tuoi”. Osservai Lorena un po’ rancorosa. Trentacinquenne, single, resuscitata da un rapporto manipolativo e da un anno fedele alla nuova cultura del pensiero magico. Arcangeli, Guru, Sciamani, Counselor, Motivatori etc., tutta gente disperata al pari di lei che aveva dato un senso alla propria vita facendosi portatori sani di insegnamenti millenari in corpo e mente insani. Non ci credevo a tutta quella pagliacciata relativa alla consapevolezza. Se per millenni quelle teorie non avevano portato alcuna illuminazione, luce ed essenzialmente liberato l’uomo dal dolore interiore che senso avevano in questo millennio se non rendere le persone più sofferenti a se stesse. Avevo l’impressione che l’avvento delle tecnologie eteree si fosse aperto il vaso di pandora. Per ogni circostanza, evento, silenzio, per Lorena e quelli come lei c’era sempre un principio di fondo, da ricercare, analizzare, per darne un senso, un significato, un giustificativo. Non so cosa la spingesse a stare dietro a tutte le teorie improbabili dell’universo, immagino la fottuta speranza che le cose potessero essere diverse e che lei avendone trovato la radice fosse più speciale di altri. Lo chiamavo il fenomeno dell’individualismo divino. Ognuno si sentiva Dio… dimenticandosi che Dio era solo una illusione come la conoscenza della verità sempre frammentaria. Tuttavia, dovevo ammettere che mia sorella riusciva sempre a elargirmi visioni quanto meno interessanti. Per dispetto e anche per spirito scaramantico alzai di nuovo una carta e…. “L’amore è la medicina che accelera la guarigione: Ama te stesso, ama il prossimo, ama i tuoi nemici, ma inizia dall’amore per te stesso. Non puoi amare gli altri finché non ami te stesso. Se non ami te stesso, non puoi amare nessun altro”. “Già”, borbottai lanciando la carta sulle gambe di Lorena.

Senza staccare  le mani dal cellulare diede una rapida lettura alla sibilla. Quando ebbe finito la schizzofrenia digitale prese la carta tra le mani e sventulandomela sotto il mento disse: “Vedi è tutt’altro significato, c’è bisogno di amore nella tua vita”.

“Certo, certo”, risposi. “Quindi dovrei amare comunque a dispetto di tutto e tutti. La parola amore ormai è sinonimo di abuso. Se ami è permesso tutto, a prescindere. Ama e sarai perdonato, basta amare e le tue colpe saranno dmenticate. Vallo a dire a chi è morto in una raffineria o è caduto da un ponte. A me sembra una cazzata”.

Lorena sospirò. “Vuoi che ti dica come stanno le cose?”.

“Ah beh, se lo sai tu, dimmelo. Toglimi dal mistero della vita” risposi.

“Sarò chiara e disincantata. Lo so cosa pensi in merito al mio disincanto. Comunque, il mio consiglio spassionato è mollalo, punto e basta. E’ solo problema di ormoni il tuo. Scommetto che lo hai conosciuto durante l’ovulazione”.

“Scusa?”, chiesi interdetta “E questa?”. Dal tavolino raccolse una rivista delle sue.

“Ho letto proprio ieri uno studio interessante”, disse sfogliandola, “una di quelle ricerche fatte da un famosa università americana che chiarisce scientificamente da dove originano le nostre scelte inconsce”.

“Se mai fosse possibile…”, borbottai derisoria.

Lorena raggiunta la pagina dell’articolo mi porse la rivista.

“Leggilo! Pare che durante il periodo dell’ovulazione la donna tenda ad effettuare delle scelte ormonali affrettate e, se le capita di conoscere una persona in quei giorni, può avere l’impressione di aver trovato l’uomo della sua vita. In sintesi può capitare che una donna possa così scegliere l’uomo che non rispecchia affatto i suoi gusti, solo in base allo sfasamento ormonale mensile”.

Guardai l’immagine di apertura dell’articolo firmato da una certa Annabella Stuardi in cui un uomo e una donna stavano avvinghiati in quello che presumibilmente era un rapporto sessuale, finto. Girai pagina e invece di leggere mi limitai a guardare le immagini a corredo del testo. “Non saprei”, borbottai metidabonda su un’altra foto in cui erano raffigurati un gruppo di giovani tutto sorrisi e tendenza. Chissà quanto avevano guadagnato per dare quel sorriso ad una foto? Me lo chiedevo sempre davanti alle pubblicità. Ma soprattutto, mi domandavo se i protagonisti immortalati sapessero a cosa sarebbe servita la loro immagine. “Hanno davvero fatto una ricerca per dare un significato alla chimica? Quanto hanno speso, e come hanno fatto? Comunque non c’era neppure bisogno di perder tempo. Il risultato ci paragona agli animali, che in fondo siamo. Non è un mistero. Diciamo che non è la scoperta dell’acqua calda e la teoria in parte giustifica bene l’animalità che risiede in noi”. Chiusi la rivista unendola alla pila delle altre sul tavolino senza leggere alcuna riga. Odiavo la pseudoscienza elargita in quel tipo di articoli. “Beh, ma ti ricordi il giorno in cui vi siete conosciuti?”, chiese. Ci riflettei un po’ su. Davide lo avevo conosciuto al compleanno di Teresa. E non so come, nonostante fosse l’antitesi degli uomini che piacevano a me, anche se sinceramente definire chi mi piacesse era tutto dire, considerato che se mettevi i vari personaggi transitati nel mio cuore uno di fianco all’altro  sembravano i personaggi di un circo, compreso il nano, lui invece mi aveva come si usa dire preso subito, o meglio le sue mani, per tutta la sera non avevo fatto altro che cascarci sopra con gli occhi. “Sono sicura che eri in ovulazione piena”. Curiosa e in parte anche interessata a sfatare mia sorella dal cellulare cercai nell’agenda la data del compleanno di Teresa, e poi il giorno marcato “x”. “Ovulazione piena”, confermai stupita e allo stesso tempo quasi incuriosita. “Ecco, allora tanto per toglierci il dilemma e il problema, e come ami sostenere tu, evitando di dare spiegazioni troppo magiche, è semplicemente un uomo da ormone, quindi ciccia, non ci sono altre spiegazioni. Sesso puro e semplice ed è quanto ti offre Davide”. Sorrisi e acconsentii divertita dalla versione di mia sorella…   © –  Sara Tessa – Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente portale, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque piattaforma tecnologica, supporto o rete telematica, senza previa autorizzazione scritta di Sara Tessa.      
Nella zucca dei libri

Nella zucca dei libri

Antìpode (o antìpodo) aggettivo singolare maschile dal latino antipŏdes plurale, greco ἀντίποδες, complemento di ἀντί «contro» e πούς ποδός «piede». – 1. Come s. m. pl., antipodi: a. Secondo gli antichi Greci, abitanti di un’ipotetica terra giacente nell’emisfero australe e diametralmente opposta alla Terra conosciuta. b. In genere coloro che abitano in punti della Terra diametralmente opposti: gli a. nostri per sostenersi e caminare non hanno difficoltà veruna, perché fanno giusto come noi (Galilei). c. Per estens., e più comunem., paesi o punti che nella sfera terrestre sono diametralmente opposti fra loro: stare, abitare agli antipodi. Legge degli a. (o legge delle opposizioni diametrali), espressione con cui si indica la constatazione geografica per cui, a posizioni diametralmente opposte sul globo terrestre, corrispondono in molti casi condizioni di natura opposta (per es., se a un estremo vi è una terra all’altro vi è un mare, e viceversa). In usi fig.: abitare agli a., in luoghi molto distanti (anche di uno stesso paese, o di una stessa città); fam., essere agli a., seguire idee, concezioni opposte: in questo io e lui siamo agli antipodi. 2. Come agg., non com., che si trova in un punto della terra diametralmente opposto: Dante immagina la montagna del Purgatorio antipode a Gerusalemme. 3. In botanica, cellule a., gruppo di tre cellule che si formano nel sacco embrionale delle angiosperme, dalla parte opposta all’oosfera, al polo calazale: avendo perduto la capacità riproduttiva, non hanno funzione determinata e scompaiono dopo la fecondazione (anche come s. f. pl., le antipodi). 4. s. m. In chimica fisica, a. ottici, stereoisomeri che, differendo tra loro per una diversa distribuzione spaziale degli atomi componenti, così che l’uno appaia l’immagine speculare dell’altro, presentano le stesse proprietà fisiche e chimiche ma fanno ruotare di una stessa quantità il piano della luce polarizzata, l’uno verso destra (forma destrogira) e l’altro verso sinistra (forma levogira); uniti in eguali quantità, in miscela meccanica o in composti molecolari, formano sistemi otticamente inattivi che si possono però scindere nelle forme attive. Sono detti anche antimeri, forme antipodi o forme enantiomorfe.

Dopo la laurea in letteratura avevo mantenuto l’abitudine di consultare il dizionario quando qualche parola si evidenziava alla mia attenzione. La parola svettava a caratteri cubitabili nello slogan affisso alla parete di ingresso degli studi televisivi di un piccolo canale satellitare, ed era stato difficile non notarla.

Dovevo incontrare la Dottoressa Valentina Preschi, project manager di un nuovo progetto televisivo in via di sviluppo. Mi aveva trovato googolando in rete imbattendosi nel mio blog semiserio di personali pareri sulle opere libresche in cui incappavo nei mercatini dell’usato. Luoghi ormai in via di estinzione, ma che per quel che mi riguardava erano la fonte delle mie più grandi scoperte.

Con l’editoria usa e getta degli ultimi anni i libri passavano nelle librerie come meteoree, per poi finire nel dimenticatoio infilati uno dietro l’altro su lunghe pareti asettiche.

Invece quei piccoli piccoli ambienti del riciclo custodivano sempre delle chicche. Autori sconosciuti, voci singole, e tempi diversi. Inoltre per una come me, socialmente selettica fermarsi in quei templi era meno ansiotico che entrare in una grande libreria.

La porta si aprì e rapida infilai il cellulare in borsa.

“Buongiorno Chiara! Piacere di conoscerti”, disse Valentina Preschi.

Mi alzai in piedi per le presentazioni.

“Buongiorno il piacere è mio”.

“Prego accomodati”, disse accompagnandomi alla sedia davanti alla sua scrivania.

Valentina Preschi aveva una stretta di mano forte, era ben vestita, aveva un taglio di capelli perfetto, fede al dito e anello con diamante a proteggerlo. Bijou cascante e via dicendo. Una bella donna, che nell’insieme mi dava l’idea di intraprendenza e autorevolezza.

“Allora Chiara, innanzitutto complimenti per il blog che curi. Ho letto le tue recensioni e le ho trovate molto argute”.

Aveva appena pronunciato la parola che non avrei voluto ascoltare.

Recensione: Esame critico, in forma di articolo più o meno esteso, di un’opera di recente pubblicazione. Il termine è usato anche a proposito di spettacoli teatrali, cinematografici, mostre d’arte e simili.

Non scrivevo recensioni o critiche che già il termine presuppone giudizio negativo. Non dovevo dire se mi piaceva o meno un libro. Non era quello il fulcro di una recensione. Doveva essere semplicemente l’opinione, la riflessione in merito al messaggio implicito dell’autore. Cogliere la sua voce e capire il suo ardire dietro le parole e con pura obiettività ampliare il concetto. Proprio per non incappare in pregiudizi acquistavo i libri nei chioschi dell’usato. Mi facevo catturare come un tempo dal titolo, dalla copertina o dalle poch righe di incipit. Acquistavo a scatola chiusa. Senza denigrare alcun genere.

Nella zucca dei libri, questa era il nome del mio blog. Un modo per dire, metti la zucca nella lettura. Cerca di andare oltre la corteccia del cranio. Attiva i neuroni, collegali al cervello e manda impulsi anche al resto del corpo.

Non sapevo bene cosa volesse propormi, o meglio, nella telefonata di una settimana prima mi aveva accennato ad un programma televisivo dedicato ai libri, ma non che io sarei stata la protagonista, conduttrice, la velina insomma. Non ne avevo la minima idea quando mi ero seduta davanti alla sua scrivania che di lì ad un minuto avrei dovuto sostenere un provino con videocamera sparata in faccia…

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Quello che ti pare

Quello che ti pare

Capitolo 1

Manovre Traverse

Seduta alla scrivania tergiversavo su quale effetto grafico dare alla bella auto rossa in corsa sulle colline toscane. Il ritocco doveva rendere l’immagine più accattivante tanto da ispirare spavaldi automobilisti dell’avvenire.

Avevo già provato ad opacizzare, ma il risultato aveva reso l’insieme troppo aggressivo e anche un po’ cupo per il concept pubblicitario. Lo slogan non dava molte alternative: E’ la passione a vincere… vivila fino in fondo. Pensai che enfatizzando i colori del tramonto forse sarei riuscita a dare maggior risalto avvicinandomi così all’idea tanto esaltante di sedersi al volante.

E viviamola fino in fondo questa benedetta passione”, mormorai sottovoce appoggiando la mano sotto al mento a sorreggermi la testa. Meditabonda, cercai di immaginare un sentimento tale.

Vai verso un’orizzonte non minaccioso, ma caldo, rassicurante. Domani è un altro giorno. Il futuro è roseo. Fatti trasportare dalla vita. E altri mille slogan propositivi.

Dal barattolo delle compensazioni presi una rotella di liquirizia addentandone una punta e srotolandola la mangiai centimetro dopo centimetro.

Decisi di concentrarmi sul tramonto, aggiungendo un livello di lavoro, e con un pennello da mille pixel applicai uno sfondo giallo intensificando i toni dell’orizzonte. Attraverso la musica sparata in cuffia provai ad entrare in contatto con l’atmosfera di un futuro radioso. I Boards of Canada avevano la giusta melodia ad evocare destini inconcepibili alla coscienza, ma concepibili all’inconscio, il vero motore dell’animo umano. Ondeggiando sulla sedia con gli occhi chiusi fantasticai di starmene seduta dentro l’auto dei sogni. Il piede sul pedale dell’acceleratore, le mani strette al volante in pelle, un rosso rosato oltre il parabrezza e il cuore pieno di promesse e desideri. Satolla di quell’energia risolutrice del sì può fare, e nulla sulla strada ad ostacolare la libertà nella brama di conquista. Esattamente come una giocatore di football al limite del tempo, carico di adrenalina, che corre con tutto se stesso, schiva, salta, abbatte ostacoli per proteggere il prezioso tesoro stretto al petto, e infine una volta giunto alla meta lo scaraventa a terra alzando poi le braccia al cielo e urla di gioia perché porco cazzo ce l’aveva fatta. Wow che sensazione! Mi si era accapponata la pelle solo ad immaginarlo.

Una mano toccò la mia spalla e riemersi dalla musica e dal sogno catapultandomi nel mondo del non si può fare mai niente senza essere disturbati. Tolsi l’auricolare di destra e alzai lo sguardo.

«Hai finito?», chiese Linda, «Devo mandare tutto in stampa entro mezzogiorno».

Selezionai opacizzare al settanta per cento, accentuai i colori del tramonto applicando un filtro e salvai il file.

Ciao, ciao bell’auto. Fai sognare il mondo!

«Pronto!», dissi, «Carico il file sul server ed è tutto tuo».

«Com’è andato il matrimonio?», chiese raccogliendo una rotella di liquirizia dal mio barattolo.

Raddrizzandomi sulla sedia abbandonai la postura da bradipo e risposi con un sintetico: «Bene!».

Non amavo raccontare i fatti miei al lavoro, e non avrei nemmeno detto nulla riguardo al matrimonio di mia sorella, ma avendo chiesto una settimana di permesso non retribuito alla Vigoretti & Prinetti Concept, luogo in cui le ferie erano ancora ostinatamente e rigorosamente fissate ad agosto, tutti ne erano venuti a conoscenza.

«Hai fatto qualche foto?», chiese.

Scossi la testa. «Personalmente no, aspetto che me le giri mia sorella».

Figurarsi se gli facevo vedere le foto del matrimonio mascherato con l’entourage erotico del Lux Valhalla.

«Poi le voglio vedere, si è sposata a New York vero?»

«Sì», risposi indifferente alla sua curiosità.

Improvvisamente Linda divenne seria e cerea in volto.

«E’ arrivato!», esclamò.

«Chi?», chiesi curiosa voltandomi verso l’ingresso dell’open space dove il suo sguardo si era raggelato.

«Il nuovo direttore!», disse.

Osservai un gruppetto di manager leccaculo attorno a una figura di cui intravidi solo una porzione di spalla.

«Ma Baldani?», chiesi.

«Non lo sai?!», chiese meravigliata strabuzzando gli occhi, «Non hai letto l’email?»

No, non lo avevo fatto. Leggere le emails quel lunedì mattina non era stata tra le mie priorità. Con il jet-lag addosso era già tanto avessi aperto il programma di grafica.

«No!», risposi, «Ho pensato fosse urgente finire la campagna della Bmw e poi aggiornarmi».

Lei annuì pensierosa.

«Certo era prioritario. Comunque, hanno silurato Baldani la scorsa settimana, pare abbia avuto uno screzio con la direzione lo sostituirà Tommaso Prinetti, il figlio del capo supremo».

Sarà uguale a tutti gli altri, pensai, narciso e figlio di papà. Di sicuro fresco di laurea era stato mandato in missione a disintegrare quanto rimaneva di un’azienda che aveva visto i tempi d’oro nel secolo scorso.

«Alle undici ci sarà una presentazione nella sala conferenze».

«Grazie per avermelo detto», mi affrettai a dire, «di sicuro restavo qui».

«Vado a fare le stampe in laboratorio, ci vediamo dopo, tienimi la sedia se arrivi prima di me».

«Ok», e riacciuffata la cuffia tornai alla musica, ma ormai l’atmosfera da sogno era persa e anche la mia predisposizione al viaggio.

Lessi l’email di aggiornamento settimanale in cui erano evidenziati gli step dei progetti in corso e il comunicato interno ai dipendenti relativo alla nomina del nuovo direttore, appunto Tommaso Prinetti. Diedi una scorsa veloce alle poche righe a motivazione della sostituzione e alla breve biografia del soggetto. Si era laureato alla Bocconi di Milano, ovviamente, aveva frequentato diversi Master negli Stati Uniti, ovviamente, aveva lavorato per quattro anni in un’agenzia di comunicazione digital di New York, ovviamente, faceva volontariato, ovviamente, e praticava scherma, ovviamente. Non me ne fregava granché del cambio al vertice. Il mio lavoro era di semplice esecutivista, e non avevo ruoli partecipativi all’agenzia se non rendere migliori le immagini. Inoltre, in cinque anni di onorato servizio, avevo visto battaglioni di stagisti, dirigenti e addetti alle pulizie ruotare a ciclo continuo. Sapevo con certezza che tempo un anno l’agenzia avrebbe chiuso o al massimo ceduta a qualche colosso smembra azienda e di questo non me ne preoccupavo minimamente. Avevo un progetto in corso, e soprattutto meno di un anno per decidere se tornare a vivere New York e accettare gli accordi di successione dettati da mio padre. Qualsiasi destino aspettasse l’agenzia non avrebbe influito sulla mia vita.

All’improvviso dalla chat aziendale apparve un messaggio di Linda.

Linda Rovesi: Giorgietti ha visto l’immagine finale dice di rendere l’orizzonte meno intenso, è troppo da porno… ;-(

Puff! Sorrisi amara. Inutile cercare confronto con chi guidava uno pseudo suv dei poveri. Non si poteva fare nulla con la pochezza del Project Manager Luxury, un limitato negli orizzonti e di certo non era la passione a spingerlo bensì la taccagneria. Come sempre obbedii e risposi con un OK seguito da emotion di un pollice alzato che sottointendeva. “Che si fotta!”.

Alle undici mi spostai in sala conferenza dove raggiunsi Linda accomodandomi nella sedia tenuta in caldo per me dalla sua Moleskina. In attesa del team di dirigenti mi trastullai i pensieri con il cellulare, come i restanti presenti, a parte Linda intenta a scarabocchiare piccoli disegni floreali sul suo quadernetto.

«Buongiorno a tutti», non alzai nemmeno lo sguardo dallo schermo del telefono. Ero impegnata in una intensa chat con mia sorella in aggiornamento dalle Hawaii dove si trovava in luna di miele, «sono Tommaso Prinetti e da oggi entro a far parte del team della Vigoretti & Prinetti Concept, sono molto felice…… bla bla bla».

Chiusa la chat spostai i miei interessi sulla pagina di facebook, avviai un video postato da un vecchio compagno di università, e osservai una tizia coreana scivolare sdraiata reggendosi in equilibrio su dei pattini a rotella sotto cinquanta auto. Sconvolgente l’elasticità dell’acrobazia.

«Mi piacerebbe….. bla bla bla… avere contatto con ognuno di voi per conoscerci e intraprendere insieme un nuovo viaggio che porti a… bla bla bla».

Con la coda dell’occhio guardai il display del mio vicino sintonizzato sul video di un tettona su una giostra da luna park e poi controllai a che punto fosse il disegno di Linda. Aveva abbandonato i fiori per la silhouette di un uomo. «Pertanto il nuovo motto dell’agenzia sarà: se smetti di sognare allora stai dormendo!», e a quel punto cercai di dare un volto a chi aveva appena pronunciato quella cazzata madornale.

Purtroppo non ne ebbi il tempo poiché l’intera platea si alzò in piedi per un rapido applauso disperdendosi due secondi dopo verso l’uscita in direzione della sala mensa per un buffet di benvenuto gentilmente offerto dalla dirigenza.

«Mi sembra un tipo sveglio!», affermò Linda.

«Sì è vero», risposi dubbiosa. Non avevo seguito nulla del discorso. Come ho già detto, in cinque anni di servizio alla Vigoretti & Prinetti Concept avevo presenziato ad almeno dieci discorsi identici di direttori meteore e tutti, bene o male, avevano avuto come comun denominatore la stessa propositività che in un anno si era dimostrata essere l’esatto opposto, ovvero sterilità e improduttività.

In fila verso l’uscita dalla sala entrò al cellulare la chiamata di Pamela, la mia coinquilina.

«Ci vediamo in mensa», dissi a Linda spostandomi dalla coda, «rispondo al telefono e poi ti raggiungo».

«Pronto?».

«Ciao Sabrina».

«Che succede?», chiesi sorpresa che mi chiamasse sul lavoro.

«Mi ha telefonato il padrone di casa dicendomi che siamo in ritardo con l’affitto».

«Che palle! Sempre la stessa storia. Ho fatto il bonifico ieri, lo sa che deve aspettare un paio di giorni per vedere l’accredito sul suo conto».

«E’ quello che gli ho detto anche io, ma è un fottuto rompicoglioni».

«Sì, lo so, senti adesso gli mando la copia della disposizione per email».

«Fallo subito».

«Ovvio. Dove sei?».

«Sono qui a Lecco, hanno appena consegnato i frustini, ma sono una cinesata orripilante, li ho già rispediti indietro. Mi hanno assicurato di consegnare quelli deluxe per domani. A che ora arrivi stasera?».

«Achille passa a prendermi alle cinque, traffico permettendo saremo alla villa per le sei e mezza».

«Va bene, a dopo, baci testolina».

«Ciao, a dopo».

Pamela era la mia migliore amica e coinquilina. Ci eravamo conosciute ad un incontro di Kink per errore. Ero da pochi mesi a Milano e non conoscendo nessuno una sera avevo deciso di partecipare ad un meetup di graphic design organizzato in un locale in centro tanto per conoscere persone dell’ambiente e fondamentalmente per racimolare qualche contatto per un possibile lavoro, ma all’ingresso la cameriera mi aveva orientato al tavolo sbagliato. Avevo subito notato la stranezza dei personaggi già accomodati, ma non gli avevo dato peso. I creativi o presunti tali spesso peccano di egocentrismo. Mi ero presentata ed un coro di benvenuto e occhi a radiografarmi per intero mi aveva accolto. Dopo circa dieci minuti alla domanda se fossi una top, o bottom, o slave, o mistress o clinical avevo capito di essere al tavolo sbagliato. Tra i commensali avevo notato anche Pamela seduta accanto ad un uomo di mezza età che mi ricordava Edward mani di forbice. Mi ero scusata per l’errore e avevo poi raggiunto il tavolo giusto dove dopo un succo di frutta e altri dieci minuti avevo abbandonato per la stessa ragione della precedente. Alla fine ogni luogo di incontro, qualsiasi argomento trattasse, anche il più intellettuale, era solo un’occasione per rimediare una scopata o l’amore della propria vita. Avevo poi incrociato Pamela in metropolitana e ci eravamo trovate a chiacchierare sulla banchina d’attesa e nel tragitto fino alla sua fermata avevo scoperto che il motivo della sua partecipazione al Next generetion of the Kink era per scrivere la tesi di laurea che aveva come argomento il mondo variopinto del Bsdm. Stava cercando un Master che l’aiutasse a sviluppare la psicologia del dominatore, ma dopo l’esperienza sembrava intenzionata a cambiare argomento di laurea. I Dominatori incontrati le avevano dato l’idea di essere solo degli sfigati galattici e che applicavano la pratica prevalentemente per compensare il micropenismo. Alla fine ci eravamo scambiate il numero di telefono e tra una chat e l’altra e cazzate varie, più o meno due mesi dopo mi aveva contattato per sapere se fossi interessata a subentrare alla sua coinquilina o se conoscessi qualcuno. E così armata del mio bagaglio ero subentrata nella stanza mansardata. Pamela aveva conseguito poi la laurea in sessuologia e psicologia più che altro per risolvere la sua anorgasmia. La risoluzione al problema e anche la svolta alla sua carriera erano arrivate un paio di anni dopo attraverso Achille. Un porno attore nel tempo libero e igienista dentale di giorno rivoltosi a lei per un problema di disfunzione erettile dovuto allo stress da lavoro. Il caso clinico si era risolto con una decina di sedute e prevalentemente perché Pamela aveva intuito come le capacità in campo attoriale di Achille unite a quelle di professionista in campo medico fossero, nel loro insieme, un mix perfetto per risolvere la sua anorgasmia e non solo la sua… Da un anno infatti avevano unito la loro sinergia in servizi ad personam di Terapia Mansionale Integrata Applicata, nel senso che anziché prescrivere esercizi o analisi visivo emotivo per superare intoppi sessuali, Achille si prestava personalmente accompagnando le pazienti con pratiche sessuali dedicate. Per quanto assurdo, le clienti non mancavano, e i feedback positivi avevano incrementato il loro affari. Curavano con la pratica.

Girai l’email al padrone di casa e lenta lenta affrontai le scale, che preferivo sempre all’ascensore di cui avevo il terrore.

Al quarto piano un uomo spalancò la porta sull’androne delle scale e senza degnarmi di un sguardo o scusarsi di tagliarmi la strada con indifferenza e passo spedito si affrettò a salire distanziandomi di dieci gradini in due secondi.

Raggiunta la sala mensa mi arrestai sulla soglia in cerca di Linda che individuai a parlare con il coglione di Giorgietti. Senza pensarci un secondo di più preferii prodigarmi a riempire un piattino di… bella domanda.

Di niente, odiavo il cibo dei buffet, padroneggiavano sempre e solo quantità industriali di salumi italiani, pasta e pietanze unte. Da vegetariana mi era sempre difficile fare delle scelte salutiste. Alla fine cadevo sempre su pezzi di focaccia secca e mozzarelline tristi e ugualmente asciutte.

In attesa di impossessarmi del cucchiaio di portata per servirmi delle rondelle di zucchina unte avvertii il profumo di una colonia soppesare l’aria intorno alla mia persona. Una fragranza nota che mi disorientò non poco. Stavo per girarmi, curiosa di vedere chi fosse l’uomo immerso nel balsamo, ma arrestai ogni intenzione appena misi a fuoco una mano serpeggiare sotto ai miei occhi.

Un anello al pollice, nocche dure, pelle liscia, dita affusolate, robuste, un polso, un Rolex e un tatuaggio appena visibile sotto al cinturino. Un tentacolo erotico che meno di una settimana prima si era avventurato in mezzo alle mie gambe.

Porca puttana!

Abbandonai l’idea di imbrattare d’olio il mio piatto e spostandomi alla mia destra scivolai cheta cheta in fondo alla stanza. Al riparo dietro ai colleghi osservai l’uomo al buffet riempirsi il piatto di stuzzichini.

Era il tizio pedinato poco prima per le scale, e senza quasi ombra di dubbio l’uomo della nottata di follia al Lux Valhalla di New York incontrato e conosciuto in senso biblico in occasione dell’addio al nubilato di mia sorella, o almeno lo sembrava, ma non ne ero certa fino in fondo, o comunque quante cazzo di possibilità esistevano che a seimila chilometri di distanza lo rincontrassi. Inoltre l’incertezza era data dal fatto che nonostante avessi visto tutto del suo corpo non avevo visto il suo viso per via della maschera che entrambi indossavamo quella sera. Tuttavia l’anello e il tatuaggio e quel profumo non lasciavano molti dubbi al riguardo. Dio Santo! Se potevo averne uno a livello mnemonico il mio clitoride non ne provava alcuno in tal senso appena lo vidi addentare una tartina di salmone.

«Sei arrivata, finalmente!», disse Linda accanto insieme a Giorgietti e la Valeria Sabatini, la darkona.

Ingoiai una mozzarellina seguendo con lo sguardo Jack, così aveva detto di chiamarsi. Ma chi era e cosa ci faceva nella mia agenzia a Milano?

Il cellulare vibrò nella tasca posteriore dei miei jeans e recuperato mi persi a leggere un lungo messaggio di mia sorella in cui descriveva entusiasta l’esperienza di bungee jumpie appena fatta. Stavo per scriverle del fottitore australiano, questo il soprannome affibbiatogli con lei all’indomani della notte di sesso, quando Linda mi invitò a fare un passo indietro stringendomi, o meglio stritolandomi, il braccio.

«Ah Giorgietti le presento Prinetti il nuovo direttore», disse Marchesi mentre il profumo della colonia fluttuava nell’aria stordendomi di nuovo nei ricordi.

«Giorgietti è il Project Manager area Luxury, sta seguendo lui le campagne di Bmw e Lexus».

Alzai lo sguardo e tra le figure di spicco dell’azienda osservai il velato seduttore della notte di follia stringere la mano al coglione di Giorgietti.

«Buongiorno è un piacere conoscerla», disse quest’ultimo.

«Dammi pure del tu, il piacere è mio, spero di fare una chiacchierata quanto prima. Preparerò un’agenda al più presto, ho diverse idee da mettere in campo», disse Prinetti, alias Jack il fottitore australiano in un perfetto italiano madrelingua.

«Ottimo sono disponibile fin da subito», disse Giorgietti leccaculo.

Il mio cellulare vibrava compulsivo dalla raffica di fotografie spedite a profusione da mia sorella. Impietrita guardai meglio Tommaso Prinetti di profilo riconoscendo con assoluta certezza Jack. La linea carnosa delle sue labbra, la mascella, la barba lieve e il ricordo del suo respiro sulla mia guancia mi rizzarono i capezzoli. Parlava italiano in modo sciolto, ovviamente perché era italiano e non australiano come invece si era presentato. E secondo dopo secondo mi resi conto della menzogna e dell’assurda coincidenza. Trattenni una risata amara mordendomi le labbra imbarazzata e allo steso tempo sentendomi beffata.

«Le presento Linda Rovesi, senior graphic production , lei è Sabrina Golightly senior graphic developer, lei invece è Valeria Sabatini junior graphic developer», disse Giorgietti indicandoci una per una.

«Piacere Rovesi», proferì Linda porgendo la mano che lui fasciò con la sua e quell’anello. Strinse anche quella della darkona e l’osservai attendere un saluto consono alla situazione da parte mia. Ed esitai. I suoi occhi grigio verdi si socchiusero qualche istante sotto un paio di sopracciglia che non curvarono per nulla, ma si inclinarono sotto un punto di domanda invisibile secondo dopo secondo.

Oh merda!

Ero lì, con un cellulare in una mano e un piattino con due mozzarelle e un trancetto di focaccia nell’altra.

Mi palpitava il cuore e la fronte e il collo cominciavano a sudare freddo. Non sapevo se mi avesse riconosciuto, ma non riuscivo a costringermi ad avvicinarmi o a metter via il telefono per fare l’unica cosa che si aspettavano i presenti. Stringergli la mano, quella bellissima mano.

Distolsi lo sguardo da lui sbattendo le palpebre lentamente e con forza per guardarmi le mani occupate.

Cosa cazzo dovevo fare?

«Piacere», disse lui.

Mi limitai ad annuire con un sorriso, almeno credo, forse più una smorfia e soppesando il piatto e il cellulare implicitamente mi scusai della mia negligenza.

«Buon lavoro», disse allontanandosi con Marchesi e i seguaci manager al seguito. Sollevata respirai.

Appoggiai nelle mani di Linda il mio piatto e andai a prendere qualcosa da bere chiedendomi lungo il tragitto se mi avesse riconosciuto. Non mi era sembrato, tra l’altro, nell’abbigliamento di quel mattino, non assomigliavo per niente alla zoccola super agghindata della serata di follia, e la maschera sul viso aveva decisamente alterato i miei connotati come del resto i suoi. Era del tutto impossibile riconoscermi dietro un paio di jeans, una maglietta, e un paio di sneaker. Non ero certo la Femme Fatal di quella notte.

Ma neppure lui sembrava il mascalzone latino che avevo incontrato e che avevo identificato da due dettagli.

Davanti al cameriere delle bevande vagavo con lo sguardo dalla caraffa del succo di frutta all’arancia a quello alla pesca, indecisa, ma soprattutto in preda al timore che potesse avermi riconosciuto.

No, non poteva. Non a seimila chilometri di distanza, a Milano, in una tenuta anonima da giovane hipster. Improbabile. E poi anche se fosse? Dove stava il problema? Eravamo due adulti consenzienti. No?

Presi un bel respiro, raddrizzai la schiena e ordinai al ragazzo del catering di servirmi un bicchiere di succo alla pesca. In attesa mi trovai ancora una volta a irrigidirmi nello scorgere la mano di Prinetti/Jack il fottitore australiano prendere un flûte di vino bianco sotto i miei occhi.

«Golightly…», disse, «Che origini ha?».

Alzai gli occhi, e mi venne la pelle d’oca nel rivedere i suoi intensi. Mi fissava, calmo e attento, in attesa di una risposta.

Deglutii, anche se non c’era alcuna traccia di saliva, e abbozzai un sorriso tremolante.

«Scozzese, mio padre», risposi mentendo, sperando che il vuoto nella sua memoria fosse permanente.

Indossavo una maschera, avevo una tulle da sposina tra i capelli, vestita da zoccola, una maschera, quindi la sua immagine di una certa Elizabeth del Montana, poteva restare offuscata.

Mi guardò di traverso, studiandomi, e desiderai sprofondare nel buco nero scoperto da qualche mese dalla Nasa.

«Da quanto lavori alla Vigoretti & Prinetti Concept?», chiese.

«Cinque anni», risposi.

Sollevò le sopracciglia, e gli angoli della bocca si incurvarono.

«Allora sei brava», disse con una lontana nota ironica.

Stavo per chiedergli il senso dell’affermazione cercando di non sembrare offesa. Era noto a tutti che un grafico dopo cinque anni in una agenzia pubblicitaria o saliva di livello oppure era un poco di buono, e non lo ero. Cioè lo ero, ma solo per quella agenzia. Facevo davvero il minimo indispensabile. Avevo accettato il lavoro per lo stipendio di fine mese e per una forma di ripicca verso Tyler, il mio esecutore testamentario. Avrei potuto fare a meno di lavorare fino alla fine dei miei giorni se il mio patrimonio non fosse stato vincolato da lui e dalla mia cocciutaggine.

«Per la Vigoretti & Prinetti Concept direi di sì», risposi.

Ed era la verità. Anche essendo la miglior grafica del pianeta in quell’agenzia non ci sarebbe stato alcun modo di brillare.

Il cameriere mi porse il bicchiere di succo che afferrai rapida portandolo alla bocca per berlo. Lo notai incurvare nuovamente le sopracciglia e guardarmi come se stesse tentando di capire qualcosa. Ma poi il suo sguardo si allontanò dal mio viso spostandosi al mio braccio e infine scese lungo il corpo, come se cercasse di collegare chi fossi in quel momento con la donna che si era sollazzato appesa a un muro pochi giorni prima, poi scosse la testa sovrappensiero.

«Ci vediamo Golightly, presto incontrerò tutti gli impiegati, quattro chiacchiere per conoscerci e parlare dei miglioramenti da fare insieme».

«Va bene», risposi riportando il bicchiere alle labbra e solo allora mi resi conto di avere un indizio indelebile addosso ed era sempre stato sotto il suo sguardo. Il tatuaggio delle rondini al mio braccio.

Raggiunsi spedita Linda intenta a parlottare con le ragazze dell’area digital. Al sicuro, in un angolo, schermata dai presenti lo cercai tra la platea stando attenta che non si accorgesse delle mie attenzioni.

«E’ insieme a una influencer», disse Veronica Lancetti, front end developer area digital.

«Quale?», chiese Linda.

«Non ricordo il nome, una delle tante, quella con il culo rifatto».

«Non dici nulla così, ce l’hanno tutte rifatto, influencer di cosa?», chiese la darkona.

«Ma roba di non lo so, scrive cazzate in un blog su come essere consapevoli, scienze olistiche, diete, consigli sugli acquisti, non lo so, trucchi, tuttologia e posta foto del suo culo notte e giorno», tagliò corto Veronica.

«Di chi parlate?», chiesi intromettendomi.

«Di Prinetti, è insieme a una influencer», disse Linda.

Ah però!

La notizia in parte mi rallegrò, ma solo in parte, perché nei giorni successivi a quell’assurda nottata al sex club Lux Valhalla avevo pensato a lui, più di quanto volessi ammettere.

Tornai a cercalo tra i presenti e lo vidi gettarmi un’occhiata vaga e incerta. Per il momento non sembrava avermi riconosciuto e sperai che il vuoto persistesse.

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Capitolo 2

Intrigo

«Stai sorridendo», commentò Silvia seduta accanto nel sedile passeggero del Range Rover.

La ignorai, guardando i pedoni zombie attraversare via Vincenzo Monti.

Non stavo sorridendo. Ero solo divertito e intrigato nel ripensare a Sabrina Golightly.

La maglietta nera, i jeans stretti, le sneakers la facevano sembrare il fantasma della bella figa incontrata a New York. E il suo atteggiamento annoiato e rigido decisamente diverso dalla Elizabeth del Montana.

Che stronza!

«Stai sorridendo», disse ancora Silvia.

Non sorridevo, ero solo compiaciuto dalla situazione. Non l’avevo riconosciuta subito anche se ammetto i suoi occhi grigio verdi mi avevano affascinato dal primo istante. Era stato al buffet, quando si era portata il bicchiere alle labbra e il tatuaggio di rondini svelato ai ricordi, che avevo associato la sua mano e i suoi occhi mentre me lo prendeva in bocca e in crisi si adoperava spaventata che non mi piacesse. Ah le donne! Adoravo farle sentire incapaci nell’arte del pompino, riuscivano sempre a prodigarsi con tanta cura poi per eccellere.

«Sì, ripensavo alla giornata», dissi.

«Presumo sia andata bene».

«Molto bene».

«Credi che riuscirai a rimetterla in sesto».

«Non ho alcun dubbio in proposito».

«Bravo il mio amore, senti sabato sera siamo invitati all’inaugurazione del nuovo show room della Morgagni».

Dio no!

«Non ci sono sabato, vedo mio fratello».

«Uhm, ma non riesci proprio ad esserci?».

«No, dobbiamo discutere di alcune faccende».

Silvia fece quell’espressione da stronza capricciosa che me lo faceva ammosciare all’istante.

«Chiedi a Viviana di accompagnarti».

«Sì, ci stavo già pensando», disse digitando compulsiva al cellulare.

Era tutto quello che faceva ventiquattro ore al giorno e faticavo a ricordare l’ultima conversazione con occhi fissi uno nell’altra, ma a pensarci bene non ne avevamo mai avuta una.

Lentamente, come il traffico di Milano alle sette di sera, ritornai ai miei pensieri e a Sabrina Golightly…

Chissà se mi aveva riconosciuto? Non lo aveva dato ad intendere.

Allentai la cravatta, il collo sudato nonostante l’aria condizionata fosse al massimo, e guardai Silvia accanto sepolta nel cellulare.

E se invece mi avesse riconosciuto e come me avesse fatto finta di nulla? Scrollai le spalle. Poco male. Eravamo due adulti consenzienti, non c’era alcun problema. E poi tutto quello che accadeva al club Lux Valhalla restava al Lux Valhalla, non dovevo preoccuparmi.

«Stai sorridendo di nuovo», disse Silvia.

Non sorridevo, ero solo stuzzicato dal fatto che Sabrina mi avesse preso in giro inventandosi un nome fittizio, Elizabeth del Montana, ma del resto avevo fatto altrettanto io inventandone uno ugualmente generico, e che non ricordavo. Mi slacciai il bottone della camicia. Era stata una bella scopata, mi faceva male l’uccello a ricordare come mi era venuta tra le mani. Nei giorni seguenti all’incontro mi ero anche sorpreso a vagare con la mente a lei e all’appuntamento concordato per il prossimo settembre a New York.

E invece eccola lì, grafica nella mia agenzia a seimila chilometri e con l’aria innocente di una educanda svogliata.

L’alone di mistero dietro Sabrina ammetto rendeva l’attrazione più divertente e anche se esisteva un confine serio e ben evidente per il fatto che fosse una mia dipendente, per il mio bene avrei fatto meglio a concentrare l’attenzione a risistemare quella merda di agenzia e cederla al più presto e tornarmene quanto prima a New York.

Parcheggiata l’auto nel cortile, Silvia scese per prima fiondandosi dentro l’androne delle scale, io mi occupai di recuperare dal bagagliaio i documenti degli ultimi bilanci e le schede dei dipendenti seguendola poi all’attico che aveva preso in affitto per il mio soggiorno a Milano. Chiusa la porta alle mie spalle sfilai la cravatta liberandomi dall’imbarazzante cappio al collo che in quella città sembrava una necessità portarla per distinguersi.

Nel corridoio incontrai la borsa di Silvia per terra e come uno zerbino mi piegai a raccoglierla. Che cazzo avevano le donne con le borse. Pesavano una tonnellata ed erano sempre in mezzo ai coglioni.

Silvia Pelci, nome d’arte Tessa Keys, influencer del vivere sano, era una bella ragazza senza complicazioni e con basse pretese. L’avevo conosciuta ad un party un anno prima a New York, anche lei italiana, avevamo iniziato a frequentarci prevalentemente perché la ospitavo quando era in sosta in città. Un bellissimo culo, non molto brava a letto, per lo più fingeva e lo sapevo, ma era piccolina e mi piaceva girarmela tra le mani e godere senza fatica. Una bambolina passiva. Utile per le comparsate in giro negli eventi che contavano da cui traevo sempre qualche contatto interessante per consulenze pubblicitarie. Eravamo fidanzati virtuali e senza impegno. Purtroppo il lato negativo di frequentare una influencer era la faccenda che non smetteva di elaborare strategie marketing al secondo. Ogni circostanza, qualsiasi, una farfalla che si appoggiava sul vetro della finestra, un biscottino vegano adagiato su un piattino, o i mille regalini che riceveva ogni giorno erano fotografie e video da postare a ciclo continuo. La sua testa ne era completamente assorbita.

Frequentarci le aveva fatto ottenere qualche migliaio di followers grazie al fatto che a New York ero balzato agli onori della cronaca per aver curato la campagna lancio di un vino rosé nuova tendenza degli aperitivi a Manhattan.

La nostra relazione, se proprio dovevamo chiamarla in quel modo, aveva funzionato per il semplice fatto che lei viveva a Milano e io dall’altra parte del mondo, e ora con la mia sosta in città dopo solo tre giorni insieme, ero già in crisi. Dovevo farle un discorso quanto prima e liberarmene.

«Ordino japy?», chiese dal divano.

«Va bene», risposi, «Vado a farmi una doccia».

Entrai in camera, gettando la camicia e la cravatta su una sedia sfilandomi il resto degli indumenti. Attraversai il tappeto decorato, ed entrai in doccia. Sotto lo spruzzo del soffione distesi il collo e lasciai rilassare i muscoli testi delle spalle e della schiena. Sabrina Golightly…

Afferrai il doccia schiuma e ne versai una piccola quantità sulla mano passandola poi sul petto e sulle braccia, pensando a come si era comportata quattro giorni prima rispetto a quella mattina. Diversa, e con una distanza che non riuscivo a definire. Era lì ma non era reale. Come se stesse indossando una nuova maschera e c’era da domandarsi qual fosse quella vera, forse ve ne era una terza nascosta dietro quegli occhi e trasalii.

Deglutii respirando a fatica e lisciandomi i capelli con la mano bagnata abbassai lo sguardo ed eccolo lì, ad implorare sollievo. Ruotai la manopola dell’acqua e mi sciacquai con una cascata gelata.

Rivestito tornai in soggiorno. Silvia era ancora sul divano, il televisore acceso sul canale lifestyle e ne approfittai per visionare la struttura organizzativa della società.

Quest’ultima doveva essere alleggerita e ricomposta in nuove divisioni. Era tutto sprecato, energia persa in giornate di studio, inoltre tutta la forza creativa canalizzata dentro il business anziché fuori. Non c’era neppure un reparto ricerca e sviluppo. Era come curare un depresso in una continua analisi interna piuttosto che fargli fare un passeggiata all’aria aperta. Avevo trascorso il pomeriggio analizzando i bilanci degli ultimi tre anni e la situazione non era per nulla promettente. Mio padre mi aveva chiesto di portare l’azienda in attivo per cederla quanto prima, recuperando quanto perso negli anni. Un buco da cinque milioni di euro. Avevo accettato un po’ ignaro della situazione e fondamentalmente perché mi aveva promesso di finanziare un progetto che da tempo sviluppavo per i fatti miei e per aiutare mio fratello a lanciare sul mercato italiano il kit del suo laboratorio di genetica.

Non vedevo alternative davanti ai documenti, dovevo fare dei tagli e reinvestire sulla creatività.

Mi era bastato fare un giro di strette di mano per individuare subito chi mi sarei tolto dalle palle. Tra questi diversi Project Manager, da sostituire con nuovi ingressi più aggressivi e moderni. Se volevo vendere dovevamo innovare le persone non le idee, quelle sarebbero nate dopo.

«Amore», disse Silvia spuntando con la testa dal divano, «Ma se settimana prossima vado a Ibiza ti arrabbi?», chiese con la vocina da bambina.

«Nessun problema», dissi.

«Ci sarà anche Mauro».

Figurarsi se mi interessava del Dj Cuzzaro, il suo ex morto di fama. Anzi, se c’era un ritorno di fiamma tra loro ci guadagnavamo tutti, compreso il sottoscritto che se la levava dalle palle con successivo aumento di followers assatanate a consolarmi. Poverino, un uomo tanto carino, abbandonato e tradito.

«Vai pure io sarò impegnato», dissi, anche se l’idea di un po’ di mare non mi dispiaceva. Mentre parlavo arrivò una notifica al cellulare dalla sua pagina Instagram.

Aveva appena postato una sua foto sul divano in quell’atteggiamento moccioso da troietta sexy con la mia cravatta annodata al polso completa di didascalia.

Love is blind! ♥

#fallinginlove #loveforever #meandyou #sexyboy #bestlife.

A volte non capivo se avesse il cervello deteriorato dalle onde elettromagnetiche del cellulare per chiedermi di scopare con un post. Si sarebbe potuta alzare, avvicinare, sedersi sulle gambe che so, stimolarmi un poco. No, con lei funzionava così. Si faceva una bella fotina sexy e poi la postava. Purtroppo Silvia e come lei tante altre utilizzava la rete per rimandare le delusioni. Se io non avessi avuto voglia, si sarebbe consolata con la dose di adrenalina da like, se invece mi alzavo, come stavo facendo in quel momento, la stessa dose arrivava sotto altre forme. Vinceva comunque ottenendo una doppia dose.

Avvolsi la cravatta annodata dal suo polso al mio e la tirai su a sedere.

«Ti piace l’idea?», disse smorfiosetta.

L’idea mi piaceva, ma non si esortava così un uomo. Per quanto noi ragionassimo a senso unico capivamo sempre chi era attrice e chi no, almeno io. Lei lo era e io per questo la scopavo senza pensieri e problemi. Sabrina invece non era un’attrice e mi stimolava molto di più, e mi resi conto di pensare a lei più di quanto credessi.

Un pompino più tardi leggevo la sua scheda.

Sabrina Golightly

nata a New York 11/11/1991

Residente a New York al 101 East 69th street

Domicilio via Ciro Menotti 48, Milano.

Tornai indietro e rilessi l’indirizzo di New York… per tre volte, incredulo e stupito. Conoscevo molto bene l’indirizzo. Era la residenza di Tyler Aldescot e sede del Lux Valhalla il sex club più esclusivo di New York. Ne ero più che certo, socio premium ormai da quattro anni.

A conferma però lo cercai su google maps tanto per esserne certo. Selezionai la visualizzazione satellitare e guardai un’immagine primaverile sullo schermo che rendeva il palazzo a Park Avenue più brillante di quel che fosse nella realtà. Appoggiai le spalle allo schienale della sedia confuso. Che razza di coincidenza era? E chi era Sabrina Golightly?

Googlai il suo nome in rete trovando ben poco riferito a lei. Non aveva profili social e le poche informazioni presenti riguardavano suo padre, ex-socio di Tyler Aldescot, Paul Golightly, scomparso prematuramente ormai da otto anni. Dalle poche notizie in rete sembrava che lei e la sorella fossero le ereditiere insieme a Tyler dell’impero del sesso. Tra le immagini della ricerca ne trovai una con ritraente lei ragazzina e la sorella il giorno del funerale con tutto l’entourage di Lux Valhalla mascherato per la cerimonia. Nella foto Tyler abbracciava la più piccola e Sabrina accanto gli stringeva la mano.

Mi chiesi cosa ci facesse come ritoccatrice grafica presso la mia agenzia. Poteva essere su uno yacht al largo della Hawaii o in qualsiasi altro posto al mondo, un resort, ovunque girasse il denaro invece… a Milano.

Ricordai però di una chiacchierata con Tyler una sera in cui mi aveva parlato di lei in merito al futuro del locale e di un problema con il passaggio di successione. Non ricordavo di preciso i dettagli della chiacchierata, avvenuta durante una delle nostre corse del mattino, bensì la sua preoccupazione e il fatto che la ragazza non fosse intenzionata a subentrare per questioni personali e altro che avevano a che fare con la madre.

In mezzo ai ricordi si fecero vivide le immagini del nostro incontro focoso al Lux Valhalla e soprattutto rammentai la presenza di Tyler a qualche metro dal nostro amplesso.

Cristo Santo.

Lui doveva sapere per certo chi era la ragazza tra le mie mani quella notte. Conosceva tutti oltre le maschere. Un moto di vergogna divampò in un bollore al corpo. Avevo creduto si fosse fermato a guardarci piacevolmente colpito dalla situazione. In passato c’era capitato anche di scopare qualche donna insieme, ma lungi da me pensare che quella sera si fosse soffermato per aver riconosciuto Sabrina. E il sorriso compiaciuto che ci eravamo scambiati come interpretarlo oggi? Mio Dio, a mano a mano che i ricordi si ricomponevano rammentai anche il messaggio inviatogli l’indomani prima dell’imbarco per l’Italia con cui mi ero vantato della magnifica scopata.

Cazzo!

Aveva risposto con un pollice alzato e un sorriso.

Stavo per chiamarlo e scusarmi, per non so neppure io. Insomma che cosa avrei dovevo fare? Tutto quello che succedeva al Lux Valhalla restava nel Lux Valhalla, e non potevo immaginare che Sabrina… Che cazzo era Sabrina per lui, la figlioccia?

Il campanello suonò distraendomi per un attimo dall’ansia dei mille pensieri riguardo a Sabrina.

«E’ arrivato il rider», disse correndo Silvia alla porta. Chiusi il computer confuso.

Sabrina Golightly, porca puttana, lei e quell’aria svogliata che me l’aveva fatta desiderare appena aveva scosso le spalle indispettita dal mio approccio. Sabrina Golightly e la sua fighetta stretta come una morsa mentre veniva. Sabrina Golightly la figlioccia di Tyler. Dovevo assicurarmi che non mi avesse riconosciuto e parlare con Tyler al più presto.

La notte trascorse agitata tra ricordi di lei al club e al buffet del mattino e l’indomani arrivai in ufficio un’ora prima attendendo di rivederla. Alle nove la osservai raggiungere la scrivania calma, levarsi la borsa a tracolla, sedersi e ciondolarsi con la sedia in attesa dell’avvio del computer. Andrea Marchesi mi raggiunse in ufficio offuscandomi la vista.

«Buongiorno Tommaso».

«Ciao Marchesi accomodati».

Andrea si accomodò nella sedia slacciando il bottone della giacca rivelando un po’ di pancia in più di quello che avrebbe dovuto avere per la sua età. Sembrava un cinquantenne invece dei trenta.

«Hai visto un po’ la situazione?», chiese serio.

Annuii.

«Ieri ho dato una rapida occhiata ai bilanci, mi spiace, ma dobbiamo fare dei tagli e reimpostare le sezioni, ci sono alcuni dipendenti che possono alternarsi su due fronti. Mi dispiace».

«Lo penso anche io».

«Inoltre i Project Manager attuali vanno seriamente rivisti. Per esperienza so che in Italia uno degli errori comuni nel selezionarli è che non abbiano necessariamente una profonda conoscenza dei dettagli tecnici del progetto di cui sono responsabili, bensì più orientata al prodotto e al commerciale. La penso diversamente. Devono avere pari competenze. Non possono interagire con la forza lavoro e con i clienti se non conoscono i procedimenti alla base, si crea malumore e produttività stressante».

Vidi Marchesi raddrizzarsi sulla schiena. La paura si era insidiata, perché lui era uno di quelli. Bravo a parole, organizzazione, ma non conosceva il lavoro alla base. Tutto facile da fare con il culo degli altri.

Potevi anche avere una visione finale del progetto, ma se ti mancava quella del processo per arrivarci, se non creavi sinergia con i tuoi collaboratori impostavi solo doveri con il risultato di lavori mal eseguiti e insoddisfazione.

«Comunque io comincerei facendo un colloquio di metà semestre con i dipendenti per valutare come procedono con gli obiettivi annuali e per conoscerli».

«Certo, vuoi che ti organizzi l’agenda?».

«Mi faresti un favore, considera mezzora per ogni dipendente, e puoi iniziare a fissare i colloqui già da domani. E’ solo una chiacchierata informale, fai girare l’informazione, non voglio che si allarmino. Non prenderò decisioni fino a dicembre».

«Perfetto mi metto subito al lavoro, da dove inizio? Quadri?», chiese.

Alzai gli occhi e la mia attenzione si precipitò a Sabrina che in quell’esatto momento si stava alzando dalla sedia con una tazza in mano.

«No, dalla base», risposi.

Volevo averla davanti al più presto, nella stessa sedia dove in quel momento si trovava Marchesi sudato e scoprire se gli ero noto come Jack. Alla fine, dopo la notte quasi insonne, mi ero ricordato il nome fittizio usato con cui mi ero presentato.

«Senti Tommaso», disse Marchesi in piedi sulla porta. Che coglione, pensai. Sicuro era in procinto di invitarmi a giocare a tennis. La sera prima per ogni dipendente avevo fatto alcune ricerche nei profili social appuntandomi gli interessi e varie cazzate postate pubblicamente. Un modo per delineare meglio i caratteri. Ero riuscito a scovare piccoli indizi di quasi tutti i dipendenti tranne ovviamente di Sabrina che avevo immaginato preferisse usare uno pseudonimo per via del suo legame con il Lux Valhalla.

«Abbiamo una convenzione con il circolo sportivo di Lambrate, tu giochi a tennis?», chiese.

«No», risposi, «Non è nei miei interessi».

«Oh, peccato, però magari uno di questi giorni potremmo farci un aperitivo insieme».

Come no.

«Assolutamente», risposi per farlo smettere di sudare.

Mi alzai per salutarlo e cercai Sabrina nell’open space.

«Senti il caffè dove si prende?», chiesi guardandomi attorno.

«C’è la sala break in fondo a sinistra dopo i bagni», disse, «ma se preferisci te lo faccio portare».

«No, faccio da solo, così mi guardo in giro e vedo anche come riorganizzare l’open space, è spoglio Marchesi, non c’è passione», dissi scivolando fuori dall’ufficio.

Appena entrai nello spazio ristoro un gruppetto di dipendenti intenti a chiacchierare si azzittì appena mi misero a fuoco. Salutai con un sorriso e passo dopo passo avvicinandomi a Sabrina alla macchina del caffè americano li sentii alle mie spalle dileguarsi uno a uno. Un po’ mi gratificai del sommo potere di essere il capo, ma allo stesso tempo mi infastidii che perdurasse ancora la tensione fantozziana tipicamente italiana.

Sabrina ascoltava musica con le auricolari muovendo la testa su e giù al ritmo del brano, rock immaginai per la cadenza svelta del suo movimento. Non credo mi avesse visto e soprattutto sentito entrare. Mi presi pertanto tutto il tempo per guardare il suo corpo fasciato dentro una camicetta bianca su dei jeans neri aderenti fino ai suoi piedi avvolti in un paio di sneakers oggi bianche. Aveva i capelli raccolti con una matita piantata in un chignon scomposto, vagamente sexy. Difficile pensare fosse davvero lei la donna appassionata di solo cinque giorni prima. Quando Tyler mi aveva parlato di Sabrina aveva usato il termine puritana e figa di legno. Incredibile si riferisse alla sua figlioccia in quei termini, ma era Tyler, un iconoclasta sessuale estremo. Effettivamente nel vederla nella mise di quella mattina dava proprio l’idea di essere intollerante al genere maschile. Una che non te la mollava tanto facilmente, era forse la preziosa, o troppo intelligente per sprecarsi e godere. La speciale, e tuttavia un po’ lo era visto che se si concedeva, be’ fuoco e fiamme.

Avvicinandomi intuii dai suoi movimenti un nuovo brano musicale. Più melodico e armonioso per come ora ondeggiava la testa e il collo da destra a sinistra.

Dall’unico pensile presente cercai una tazza senza identità tra quelle con nome stampato. Scesi con lo sguardo lungo il bancone in cerca di un bicchiere o altro idoneo al caffè e notai Sabrina rigida accanto stringere la sua tazza tra le mani quasi stesse pregando. Piegai il volto guardandola di sottecchi, lei alzò appena lo sguardo per sorridermi e togliendosi un’auricolare, indicò uno scaffale ai miei piedi.

«Le tazze senza nome sono lì sotto», disse.

«Grazie». Mi prodigai a prenderne una e la feci scivolare accanto alla sua.

Lei si versò una tacca di caffè nella tazza con il suo nome inciso e un coccinella a distinguerla presumibilmente da un’altra Sabrina e dopo un «Ciao» condito da un’espressione seria e distaccata, se ne andò a tutta velocità.

No, non mi aveva riconosciuto. Impossibile. La reazione era stata la stessa che avrebbe avuto un qualsiasi dipendente se gli fossi sopraggiunto alla spalle. Paura e diffidenza.

Di nuovo nel mio ufficio vidi con piacere come Marchesi in meno di dieci minuti avesse stilato gli appuntamenti per l’intera settimana. Veloce andai a caccia del cognome.

Lo pronunciai muto. Golightly. Mi piacque la sensazione sulla bocca e sulla lingua nell’articolarlo. Vibrava di sesso orale. Golightly…

L’incontro era fissato per le quattro dell’indomani ed ero proprio curioso. Volevo sapere cosa l’avesse portata a Milano e soprattutto a fare un lavoro così mediocre rispetto alle potenzialità del suo curriculum. Insomma, curiosità lecite considerando che aveva una fortuna ad aspettarla sotto al materasso e una città di origine che era il sogno di ogni essere vivente su questo pianeta.

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