Inconsueto

Inconsueto

Aiuto si parte!

“Hai preso tutto?”, chiede Milvia.

“Sì, tutto”, rispondo.

L’arzilla vecchietta che mi ha appena offerto un caffè è la mia vicina di casa, un’ultraottantenne che indossa i suoi anni con eleganza e garbo. La sua mente è tanto vispa da far invidia ad una ventenne. Ha insegnato per quarant’ann al liceo Parini di Milano utilizzando i brani del Boss e dei Pink Floyd inoculando oltre a perle di saggezza anche una dose massiccia di inglese. Sarebbe stata l’insegnante ideale per me, sono certa che il mio inglese ne avrebbe beneficiato. E’ un’evoluta, una che si distingue, una che ami solo a guardarla. Un’anima antica e rara e mi conosce da quando ho sei mesi, come gli altrettanti abitanti del condominio in cui vivo, anzi dove praticamente sono cresciuta.

Appoggio le chiavi di casa sul tavolo della sua cucina. E’ mia abitudine lasciarle sempre un mazzo di scorta per ogni evenienza, io le sue le ho già da qualche anno.

Sono in procinto di partire per i consueti venti giorni di ferie agostiane. Di regola, dovrei esserne felice, ma non è così. Vado da mia madre a Roquebrune Cap Martin, nella faraonica villa di mio fratello Andrea affacciata sulla baia di Montecarlo. Vivono insieme, o meglio, lei soggiorna in una dependance nell’immenso giardino padronale. Ha l’alzheimer, conclamato e solo grazie alle risorse finanziarie di mio fratello può guardare il mare dalla sua poltrona tutto il giorno senza preoccuparsi del resto della sua vita. Se non ci fosse stato lui cinque anni fa’ non so davvero che cosa ne sarebbe stato di lei e di me. Quando mi chiedono come sta mia madre rispondo solo: “Vive in un giardino”. Ed è vero. Un eden alla vista e anche nella sua mente ormai regredita a una vita parallela, dove la sua vera famiglia non esiste più.

Andrea è partito per un viaggio in Messico insieme a Sara, la sua seconda moglie. Per venti giorni presidierò il promontorio monegasco. L’unico beneficio di queste ferie, imprigionata in una villa da fantamilionari, è che avrò il mare di fronte agli occhi in ogni dove, una piscina da sogno, un giardino all’italiana, una palestra accessoriata, cantina dei vini grande quanto la mia camera da letto e servitù a prepararmi manicaretti di ogni genere. Bello, tutto molto bello, peccato che io sia l’antitesi di mio fratello. Siamo diversi e simili, e dalla caparbietà contrapposta. Io preferisco il campeggio, il trekking, una spiaggia di sabbia anche accalcata e panini imbottiti di modestia e povertà al lusso che invece ha scelto di volere lui e che ha ottenuto con tutto se stesso.

“Saluta tanto la mamma e dalle un bacio da parte mia, si ricorda di me vero?”, chiede Milvia sulla porta dell’ascensore, con la sua voce inconfondibile da fumatrice seriale.

“Sì, ricorda tutti i vicini di casa tranne dei suoi due figli”, rispondo dandole un bacio.

Milvia sospira e colgo in lei la solita solidarietà compassionevole. Le voglio bene. Davvero. E’ una vicina di casa amorevole e soprattutto poco impicciona.

Prima di mettere in moto l’auto spunto la lista mentale delle cose messe in valigia. Sono sicura di aver dimenticato qualcosa, ne sono quasi certa, e talmente tanto che non mi viene in mente nulla di specifico. Lo scoprirò a cento chilometri da casa, come sempre. L’importante però, come dice Federica, la mia migliore amica, è avere sempre mutande a volontà, tampax, strisce depilatorie e un rossetto, il resto lo si può recuperare facilmente nel peggior negozio cinese del mondo.

Il traffico in autostrada diventa più scorrevole una volta presa la biforcazione per Ventimiglia. Radio Freccia e pensieri a galopparmi in testa e tra questi uno perpetuo che si ripropone ogni dieci.

Non ho più saputo nulla di lui, niente di niente. Potrebbe essere morto e nessuno avrebbe il coraggio di dirmelo, oppure potrebbe avere avuto un figlio ormai di qualche mese e altrettanto nessuno me lo direbbe. Perché è meglio così. Io non l’ho più cercato, lui nemmeno, ma resta il fatto che lo penso ancora. Ho stabilito il contatto zero che significa sforzarsi di non cadere nella trappola social, e obbedisco al diktat della mia anima. Non spio, non cerco, e banno ogni sentimento. Federica dice che è ora di trovarmene un’altro, il famoso chiodo scaccia chiodo, ma è una cazzata. L’ho già fatto prima che lei mi desse il sommo consiglio di chi non sa cosa dire davanti ad un’amore finito e un’ossessione che non scema. 

Sono uscita con uno, anzi tre per la verità, ma ho deciso di chiudere la faccenda uomini al quarto appuntamento. Ho un lanternino molto piccolo che sembra attirare tutto ciò che è piccolo. Cervelli piccoli e corrispettivi peni delle medesime dimensioni. Proprio piccoli. Piccoli tappi irsuti, ma tappi. Ne ho accettati due, nella speranza che fossero un chiodo sufficiente, ma al terzo non me la sono sentita e gli ho offerto un fellazio, rendendogli il favore di avermi fatto venire di lingua. Invece con il quarto, nonostante mi avesse inviato la foto del suo pisello, mi era bastato stringere la mano e vedere un buco nero tra i denti per accusare un mal di testa lancinante e tornarmene a casa. Ho cancellato il mio account dall’applicazione nota per la ricerca dell’anima gemella disinteressandomi completamente al genere maschile.

Sono sfigata, ormai è conclamato. Conosco persone che fanno sesso come se non ci fosse un domani, di qua e di là. Tutte belle fighe, o bei fighi. Forse mentono, oppure hanno un’energia da acchiappa sesso, che io no ho. Devo avere un problema karmico. I fighi non mi cagano, i normali sì, e però spesso, come ho già scritto, mi sorprendono sempre per la pochezza mentale e fisica. Sempre Federica dice che a volte pecco di superbia. Sarà vero, ma non credo. Non ho dei pregiudizi, e forse è questo il problema. Sono una credulona e ho un basso senso dell’autostima. Comunque, come dicevo,  ho abbandonato definitivamente l’idea di trovare qualcuno da quando nella mia vita è entrato Lelo. Il vibratore sonico per eccellenza, un vero amico oserei affermare. E’ nella pochette in valigia. Viene con me, per farmi venire e di lui non me ne sono dimenticata. Un gioiello sessuale con il quale raggiungo l’orgasmo che un uomo non sarà mai in grado di darmi.

Durante il viaggio sono solita fermarmi sempre nello stesso autogrill, quello subito dopo l’uscita di San Bartolomeo al Mare. Il parcheggio è comodo, i bagni puliti e il locale ha una buona selezione di focacce e panini all’occorrenza. Una pipì, un caffè dopo, uno sguardo vago al paesaggio, varie occhiate da parte di camionisti abilmente schivate e riparto alla volta della Francia.

Gli ultimi chilometri dell’autostrada prima della frontiera sono quelli che preferisco, il traffico è ormai scemato di uscita in uscita. Al casello so che ormai sono in dirittura d’arrivo. Poco meno di quindici minuti e sarò al capezzale di mia madre. Non sono mai felice di vederla. Mai provato gioia, ma sempre e solo quella fottuta frustrazione nel doverle stare vicino mostrando un sorriso benevolo quando nel profondo avrei voluto solo che non fosse lei, mia madre. 

Non la amo, non so nemmeno cosa dovrei provare per lei. Può sembrare una cattiveria, ma non è così, è la verità più vera. Il mio amore, se proprio devo chiamarlo così fatto di compassione scoraggiata. Sono cresciuta guardando le altri madri e le mie amiche chiedendomi sempre che relazione ci fosse realmente fra loro. Come dovrebbe essere l’amore tra figlia e madre? Io non lo so. Non lo conosco quel sentimento. Tutto ciò che provo nei suoi confronti è ormai insofferenza. Non mi ha dato nulla, lei, se non paure, delirio, e insicurezza a causa della sua schizofrenia che ha accompagnato la mia crescita da che sono venuta al mondo. Una forma di depressione post-partum degenerata in psicosi con manie persecutorie. Sono cresciuta osservando la sua follia in un angolo della stanza insieme a mio fratello, ma più grande di me di dieci anni, lui ne è rimasto meno paralizzato ma comunque colpito anche lui nell’anima. 

Non sono mai bastati i farmaci a fermare le allucinazioni, solo l’alzheimer ha tolto di mezzo le psicosi rendendola serena nel nuovo mondo che ha creato nella sua testa. Dice che non ha figli e che suo marito è un dottore di Roma, un certo Ottavio. Non ho idea se sia fantasia o semplicemente ciò che avrebbe voluto dalla vita. Mi chiedo anche se questo dottore di Roma sia mai esistito. Forse un amore mai sopito, un’ossessione che le è rimasta dentro nonostante poi abbia sposato mio padre e fatto due figli. Non ho idea. 

L’alzheimer, per quanto abbia messo fine ai deliri, rendendo me e mio fratello in parte più sereni, ci ha tolto l’unica speranza che un giorno potesse svegliarsi dal suo incubo peggiore e rivolgerci finalmente un vero sguardo d’amore condita da un sorriso tutto per noi. Ma no, non accadrà mai, e io sopporto a modo mio ingoiando i rospi, mentre mio fratello lo fa’ nel modo che conosce meglio. Delegando per mezzo dei soldi ad altri le cure per sedarla. E anche se ora sono adulta e quei sentimenti di terrore e odio in parte li ho interiorizzati resta una sola sensazione: la noia. Noia che ci sia ancora, noia che debba continuare a recitare con un sorriso. Noia che il mio nodo biografico sia ancora lì ogni volta che mi specchio nei suoi occhi e penso che forse chissà un giorno anche io potrei uscire di testa come lei. Devo sempre fare un sforzo per trovare di nuovo il baricentro e distaccarmi dalla sua influenza. E so fin da adesso, mentre sto imboccando l’uscita per Montecarlo che tra esattamente venti giorni tornerò a Milano provata emotivamente e una narcolessia a far piazza pulita dell’insofferenza delle mie ferie.

Quando raggiungo la villa, Liliana, la badante di mia madre, mi fa accedere al parcheggio interno. Sistemo la mia piccola Yaris tra le Porsche e la Ferrari nera e faccio attenzione ad aprire lo sportello. Le auto accanto sono splendidamente lucide, la mia invece ha il segno di un paio di merdate di piccione milanese. Poco importa, sono certa che Otis, il domestico di casa, si preoccuperà di farmela lavare al più presto e, con ogni probabilità, la sposterà nel luogo consono ad un’utilitaria dei poveri, ovvero nel retro e nascosta alla vista.

Ci sono tre gradini davanti ai miei piedi. Li faccio uno a uno mentre le spalle cedono già alla pesantezza che mi aspetta dietro la porta.

Ce la posso fare, ripeto a me stessa, ce la posso fare mentre sorrido a Liliana e vedo il volto del mio tormento affiorare dietro di lei.

Chi sei?

“Guarda Laura è venuta a trovarti Giulia, tua figlia”, dice Liliana chinandosi su mia madre il cui sguardo vago è puntato alla televisione dove immancabile su Rai Uno trasmettono una replica di Don Matteo.

“Ciao mamma”, dico avvicinandomi.

Mia madre strizza gli occhi e sbatte le palpebre donandomi poi un gran sorriso, che ormai regala a tutti indistintamente che sia l’addetto alla derattizzazione del giardino o il milionario di passaggio a far visita a mio fratello.

“Buongiorno è qui per farmi la manicure?”, chiede allungando la sua mano gelida. Con la vecchiaia la pelle delle sue mani si è fatta spessa come la cotenna di un maiale.

Annuisco e sorrido a lei e a Liliana accanto. “Sì Laura, sono venuta da Milano, che smalto vuoi mettere oggi?”, le dico sedendomi su un piccolo puff accanto alla sua poltrona.

Lilliana capisce al volo l’antifona e recupera dal bagno due flaconcini di smalto. Oggi, stamani, e forse anche nel pomeriggio per mia madre sarò l’estetista. Stasera chissà?

“Quello rosso o vuoi ancora il color albicocca?”. dico mostrandole i colori.

“Voglio lo smalto rosso, stasera esco a cena”, dice.

“Ohilà!”, dico sorpresa mentre Liliana adagia su un tavolino acetone e armamentario vario per la manicure. “Ci mettiamo in ghingheri allora, Laura?”.

Sorride come una ragazzina e abbassa gli occhi come se provasse imbarazzo.

“Stasera mio marito mi porta fuori a cena”.

“Che bello!”, esclama Liliana che finalmente si è seduta sul divano accanto prendendosi una meritata pausa. E’ di origine ceca, ma posso affermare che è più italiana di altre in circolazione. Vive nel nostro Bel Paese da venticinque anni. Da quando un’estate in vacanza ha conosciuto un bel ragazzo calabrese per cui ha lasciato la sua casa nel nord. Da sette anni vive invece ad Arma di Taggia, da sola, il bel ragazzo calabrese è rimasto al paese convolando a nozze con una di quindici anni meno.

Lilliana è una bellissima donna, vivace e che non si è arresa e non si arrende ancora alle prove della vita. Nel fondo del suo cuore è sempre speranzosa di trovare un amore giusto, ma allo stesso tempo quel cuore è talmente disilluso che non si pone la questione, tuttavia noto i suoi capelli di una colorazione differente e penso che gatta ci cova.

“Dove ti porta tuo marito a cena?”, chiedo levando con il cotone le tracce del precedente smalto color albicocca.

“Non lo so, è una sorpresa. Ha detto che è in riva al mare”.

“Sarà un bel posto, sono sicura che farete una cena a lume di candela”, dice Liliana sbadigliando.

“Sicuramente”, dico.

“Lei è sposata signorina?”, chiede mia madre e il mio finto sorriso benevolo casca a terra. Fermo il trattamento per guardarla dritta negli occhi. Non c’è traccia di lei ormai, non c’è più quella cupezza di cui avevo il terrore da bambina. Vorrei dirle che per tutti i miei venticinque anni prima del buio della sua mente non ha fatto altro che ripetermi ogni santo giorno di non sposarmi e di non fare figli. Ogni santissimo giorno le sue mani si sono strette ai miei avambracci, i suoi occhi a dieci centimetri dai miei e quel maledetto monito detto a denti stretti. “Non sposarti e non avere figli!”.

Sì, questo è il mantra mentale che ha accompagnato la mia identità. Non credere all’amore e non procreare. Diffida della vita.

Vaffanculo stronza! Questo invece è il pensiero, questo quanto desidero dirle e urlarle in faccia, ma faccio zen, come sempre, da sempre e per sempre. Ingoio il rospo e lascio correre.

“No, Laura, aspetto il principe azzurro”, rispondo. Con le forbicine elimino alcune pellicine alle sue dita.

“Io l’ho trovato il principe, lo sa che mio marito Ottavio è un rinomato dottore? Lei pensi ha conosciuto anche il Papa”, dice orgogliosa.

“Bello!”, rispondo alzando gli occhi al mobile alle sue spalle dove tra le cornici in argento scovo quella con il volto di mio padre Vasco. Gli sorrido nel nulla ormai lontano da me e socchiudo appena gli occhi. A volte penso a quanto ha retto la situazione con mia madre per me e mio fratello e oggi, nonostante i sacrifici immensi per tenerci insieme e non farci ammattire pure noi, lei nemmeno se lo ricorda più. L’ironia della sorte si chiama e molto triste a pensarci bene.

Mi affretto e le spalmo lo smalto, voglio allontanarmi. Prendere un respiro. L’odore di mia madre non mi piace. Mai piaciuto. E starle così vicino me lo sento entrare nelle narici e prendere possesso del mio corpo, di me. Termino veloce e mi alzo.

“Adesso Laura non ti devi muovere, devi aspettare che lo smalto si asciughi”.

“Va bene, grazie signorina. Lei è molto carina”.

Grazie, tutta mia madre mi verrebbe da dire, ma faccio finta di nulla. Ancora ingoio e lascio correre, speranzosa che un giorno qualcosa mi renda libera di essere.

“Liliana porto le mie cose in villa, il codice d’accesso è sempre lo stesso?”.

“Sì, lo stesso”.

“Laura, ci vediamo dopo. Vengo a vedere la televisione con te dopo, così ti sistemo anche i piedi”.

“Va bene grazie”, dice con un sorriso.

Quando tornerò sarò un’altra signorina per la sua testa e va bene, entrerò in una nuova sceneggiatura, almeno mi divertirò un po’ con Liliana in discorsi senza senso.

Esco dalla dependance e getto uno sguardo al mare e a Montecarlo. C’è un mega barca che spicca di fronte alla baia. La riconosco, ricordo di averne letto su un giornale e costa la bellezza di quattrocentocinquanta milioni di euro. Una barca… E’ di un russo, e penso che il mondo è un luogo distorto e contraddittorio. Quattrocentocinquanta milioni per una barca spesi dal magnate che in quel momento starà pranzando a suon di aragosta, equivalgono ai quindicimila euro per una macchina di un uomo medio. La proporzione è davvero sconcertante a pensarci. Gli zeri dopo la virgola prima di arrivare al tre percentuale sono davvero troppi. Paraganando i fior di milioni spesi per uno yacht ad uno stipendio comune si potrebbe dire a conti fatti che un’auto costa cinque centesimi.

Qualcosa mi lecca la caviglia, abbasso lo sguardo e vedo ai miei piedi un micro-cane. Un Jack Russel, per la precisione.

“Chi sei?”, chiedo piegandomi sulle ginocchia prendendolo in braccio. Mi lecca la faccia e lo allontano un poco per guardarlo meglio. E’ vivace e simpatico come tutti i simili della sua razza. Ha una macchia a contorno dei un occhio.

Non sapevo che mio fratello avesse preso un nuovo cane. Carlotta e Arturo, i due pastori del Bovaro li ho sentiti abbaiare appena sono arrivata, ma sono chiusi nel recinto per non dar fastidio al giardiniere intendo a sistemare alcune aiuole. Faccio qualche passo e vedo una pallina da tennis tra i fili d’erba tagliati al centimetro. Mi piego rimettendo la bestiola a terra e cerco di prendere la palla, ma i denti aguzzi del cane la inforcano prima che riesca e non ne vogliono sapere di lasciarla andare.

Provo un paio di volte a toglierla dalle sue fauci, poi mi arrendo, e anche lui, intuendo che mi sto scocciando. Tento ancora la presa e di nuovo si avventa su di essa. Cane, penso, sei un cane. Potrebbe fare questo gioco per sempre senza stancarsi. Riesco infine a rubargli la pallina e la lancio lungo il prato. Mentre aspetto che torni a portarmela dalle mie spalle sopraggiunge un acuto profondo emesso da una voce gutturale e maschile che mi fa sobbalzare dallo spavento. Anche il cane si è allarmato tanto da arrestare la sua gioia canina a metà strada e proseguire chino chino fino a raggiungere i miei piedi.

Sento ancora quel grido acuto e sono preoccupata, non tanto per me, ma per la bestiola che si è stesa a pelle di leopardo sopra le mie scarpe.

Mi volto e da oltre la siepe che separa il giardino con quello confinante vedo elevarsi un uomo. Dice qualcosa, ma non lo capisco.

“Non parlo in francese”, dico in italiano. Qui a Montecarlo sono per la maggioranza italiani e i pochi francesi, anche se fanno finta di nulla, capiscono benissimo la lingua italiana.

“Cane”, dice in inglese, “Per favore, il cane”, dice ancora.

“Ah”, bofonchio. Afferro pelle di leopardo che tremolante tra le mie mani subito infila la testa sotto al mio mento. Cristo Santo, mentre mi avvicino alla siepe per consegnargli la bestiola colgo di passo in passo maggiori particolari del tipo, e comprendo il terrore della piccola creatura tra le mie braccia. Non penso sia normale che un uomo riesca a superare una siepe di due metri, ma lui ci riesce e non capisco.

In inglese, mentre mi avvicino gli spiego che l’ho trovato in giardino e pensavo fosse, ma non mi fa finire la frase che apostrofa il nome del cane “Zezze”, credo di capire e mi dice senza molte cortesie: “Dammelo”.

Attraverso le fronde della siepe vedo che è in cima ad una scala e mi tranquillizzo. Ha una normale altezza. Alzo il cucciolo che si divincola. Mi dispiace. Se un cane è così impaurito non so cosa pensare.

Il tipo si sporge oltre la siepe e vedo solo dei bicipiti e pettorali calarmi addosso. Sono fin troppo sviluppati e completamente ricoperti di tatuaggi. I suoi occhi, di ghiaccio, nemmeno mi sfiorano. L’espressione inflessibile. Un volto del genere è in grado di sorridere a qualcuno che sorride sotto di lui mentre gli restituisce l’amato cane? Non sembra.

“Tenga”, dico passandoglielo tra le mani. Noto le nocche e i dorsi tatuati. Una pistola, un coltello, un teschio. Insomma il solito armamentario da tattoo.

Afferrato il cane sparisce senza proferire parola alcuna e  tutto finisce così.

Lo sento oltre la vegetazione rimproverare il cane, e intuisco dalla cadenza della lingua che il tipo è russo. Negli ultimi anni il Principato di Monaco si è riempito di gente dell’est. Ricchi magnati che nulla hanno a che vedere con l’orda migratoria che attanaglia il Paese. Stanno portando enormi capitali nelle casse del piccolo Stato d’elité, tanto che il nuovo quartiere sorto a sud ovest da poco è ormai un sobborgo di moscoviti.

Torno sui miei passi e intercetto la pallina da tennis tra i piedi, la raccolgo e la lancio oltre la siepe senza troppi pensieri.

“Buongiorno Signò”, sento alle mie spalle.

E’ Otis, che appare sempre trasandato come Sampei. Mi sforzo di non ridere, quando parla mi ricorda Ariel il domestico filippino interpretato da Marco Marzocca.

“Fatto buon viaggio, Signò”.

“Sì, tutto bene, tu come stai Otis?”.

“Tutto bene, signò”.

Sto per chiedergli in quale stanza posso portare la valigia ma qualcosa mi tocca il piede. Abbasso lo sguardo e c’è Zezze scodinzolante con la pallina in bocca.

Oh cazzo! A quanto pare un cane si è innamorato di me!

 

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