Per essere i primi giorni di Aprile c’era un caldo torrenziale quanto una giornata di inizio estate.

Risalivo un sentiero battuto dal sole da circa venti minuti, sfiancata e sudata. Avevo sfilato la felpa per la settima volte per legarla in vita sapendo bene che non appena mi fossi addentrata in una zona d’ombra l’avrei di nuovo indossata. Il percorso per raggiungere rifugio di montagna si alternava tra mulattiere alberate con alta prevalenza di vecchi castagni e lande spianate di erba, dove l’ombra non regnava se non per mezzo di qualche sparuta e solitaria nuvola. In questo nuovo millennio il clima era decisamente mutato, un dato di fatto ormai ed evidente a chiunque, soprattutto ai “qualunquemente”, il che significava che era un problema serio. Se un qualunquemente all’improvviso si era accorto dei cambiamenti climatici significava che la faccenda ormai aveva superato il limite. Tuttavia, da quando mi ero trasferita a San Sebastiano Curore avevo imparato a guardare il succedersi delle stagioni con una nuova prospettiva tanto che a volte avevo l’impressione che esistesse una forza superiore e ne regolasse gli effetti. Sì, insomma che ci mettesse del suo a molestare le stagioni, soprattutto sgombrava il cielo da perturbazioni concedendo una strada preferenziale al sole, forse per dare all’uomo nuove energie e spingerlo ad evolversi.

Chi poteva restare fermo davanti ad un cielo terso e al sole caldo? Ti spingeva ad uscire, camminare, fare qualcosa, anche solo alzare il viso da terra e fissare l’orizzonte. Eri obbligato a mettere la testa fuori dalla tana ed era proprio per via di quel sole che avevo accettato il suo e fare una bella escursione prima che l’estate scoppiasse e rendesse quei pelligrinaggi troppo faticosi. Ma oggi era come essere in piena estate.

Dal cellulare guardai prima l’ora e successivamente consultai la mappa per valutare quanto mancasse alla vetta. Mi trovavo a metà tracciato con ancora due ore di cammino e un dislivello complessivo di 1300 metri. Era il caso di fare una sosta prima di affrontare l’atto finale. Adocchiai un solitario melo fiorito non molta distanza. La penombra dei suoi rami mi parve ideale per riposarmi senza raffreddarmi troppo. Ripresi la marcia nella macchia verde evitando di calpestare le prime margherite giganti che timidamente si aprivano al cielo. Mi trovavo più o meno a duecento metri dal melo quando un fruscio proveniente da est richiamò la mia attenzione arrestando il mio passo. Luca, il mio vicino di casa qualche giorno prima mi aveva raccontato di aver avvistato un paio di lupi aggirarsi per la brughiera. Quando avevo ascoltato il suo racconto lo avevo considerato come il suo consueto avvistamento/allarme prodotto da croniche ansie da ex cittadino trapiantato in campagna. Negli anni avevo imparato a prendere le sue preoccupazioni o per meglio definirle “visioni” al pari della favola di Esopo: “al lupo al lupo”. La differenza tra la favole e Luca era che quest’ultimo non scherzava, ma ci credeva realmente. Viveva nella paura incurabile di tutto, persino dei ghiri che di notte zampettavano sopra i nostri tetti. Nel territorio della Val Curone di lupi non se ne vedevano da almeno cinquant’anni e tanto meno si erano trovate tracce di loro eventuali attacchi. Solo Luca poteva averli avvistati, ovviamente nella sua fervida fantasia angosciante. Tuttavia quel fruscio, e in parte influenzata dalle visioni del mio vicino paranoico mi domandai se per caso non fosse la volta buona che la fiaba del lupo si avverasse in quel preciso istante. Titubante aguzzai ben bene la vista fissando il punto dal quale mi era sembrato provenisse il movimento. Concentrata cercai di sconnettere qualsiasi altra interferenza e lentamente, in una panoramica in modalità slow motion, osservai i dettagli della vegetazione pezzo per pezzo, finché i miei occhi si agganciarono a quelli profondi e scuri di un bellissimo capriolo. Se ne stava immobile e guardingo con il suo sguardo fisso nel mio ai margini del bosco. Sorrisi di cuore a quel contatto intimo. Non potevi esimerti dall’ammirare la loro incantevole bellezza. Possedevano, per natura, un singolare magnetismo che irradiava eleganza e calore, anche se erano dotati di un verso raccapricciante e inquietante tanto da far scappare anche un lupo. Era al pari di una bestia iraconda. L’esatto opposto di quello che sembravano. Innocenti ed innocui. Ricordavo bene la prima volta che ne avevo avvertito uno. Alloggiavo ancora nella roulotte accanto al rudere in ristrutturazione. Il suono rauco della loro ugola mi aveva svegliata di soprassalto in piena notte lasciandomi fino all’alba impaurita e accucciata in un angolo con un coltello alla mano maledicendo me stessa per la vita da eremita disperata che avevo scelto dopo la crisi del 2009.

Il capriolo dopo essersi accertato che non ero una minaccia si mosse di qualche passo rientrando nella vegetazione boschiva. Fu allora che intravvidi nelle retrovie un cucciolo altrettanto guardingo. Appena la madre zompettando si era addentrata nella macchia il piccolo l’aveva seguita trotterellando veloce.

“Ciao Ciao”, dissi per poi riprendere il mio cammino in direzione del melo. Niente al lupo al lupo, pensai sorridendo.

A mano a mano che mi avvicinavo al melo mi resi conto di quanto fosse imponente il fusto. Le dimensioni del tronco superavano il metro e mezzo abbondante. Mi chiesi da quanto tempo regnasse in quella landa solitaria. Raramente un albero di mele superava il secolo di vita, ma il dettaglio del suo apparato radicale lo rendeva decisamente più anziano. La chioma ampia e i suoi fiori bianchi e rosa sembravano totalmente immuni alle avversità del tempo trascorso. Giunta ai suoi piedi, ne toccai la corteccia e cercai alle sue radici se ci fosse la presenza di qualche fungo parassita, mi rallegrai nel constatare che non ve ne erano. Era illeso al degrado del regno umano e soprattutto da quello degli artropodi.

“Sei proprio un bel melo”, dissi. Steso il telo sotto il fogliame fitto mi ci sdraiai a osservare i suoi lunghi rami. Tra le mille domande che la mia mente sfornava a ritmo di una centrifuga consentii solo ad una di accedere alla corsia preferenziale dei pensieri consci. “Come è arrivato il suo seme fin qui?”. Nel circondario non avevo visto altri fruttiferi. Con tutta probabilità, era stata l’opera di un’altra anima in pena come la mia che dopo essersi rifocillato con una mela ne aveva gettato a terra il torsolo, o forse era stato portato dal vento, o forse era caduto dal becco di un uccellino in volo. Come nella vita umana, anche lui in qualche modo era stato abbandonato inconsapevolmente, o trasportato dalla corrente degli eventi, oppure scampato alla predazione per un caso fortuito. Ma che importanza aveva porsi una tale domanda. Non aveva alcun valore conoscere la storia del seme e da dove provenisse. Semmai era la sua presenza silente a interessarmi ora. Scattai una foto al melo registrandola nel mio archivio insieme alle coordinate della latitudine dove mi trovavo. Mi ripromisi di tornarci tra un paio di mesi per assaggiare i suoi frutti semmai ne producesse ancora.

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